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Viene dall’Ecuador la fibra del “Panama”, il copricapo più famoso del mondo



L’enciclopedia Treccani, alla voce “Carludovica”, così recita: “s. f. [lat. scient. Carludovica, nome creato nel 1794 in onore di Carlo IV e Maria Luisa (= Ludovica) di Spagna]. – Genere di piante monocotiledoni della famiglia ciclantacee, con 40 specie dell’America tropicale, con fusto eretto o rampicante, oppure rizomatoso, fiori maschili con numerosi stami, in gruppi tra i fiori femminili. 

La specie C. palmata dell’America Merid. somiglia a una palma, e le sue foglie servono alla confezione di cappelli di Panama”, ed è proprio dalla sua varietà palmata – in loco chiamata Toca o Paja toquilla – che, dopo una lunga lavorazione, si produce il cappello più famoso del pianeta, il “Panama” (“Panama Hat”), nato intorno nella prima metà dell’Ottocento. 

Molti si sono chiesti perché il raffinato copricapo, indossato da sovrani, capi di stato, attori ed altre celebrità, abbia questo nome. Ebbene, il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America, Theodore Roosevelt, durante l’inaugurazione del canale di Panama, avvenuta nel 1906, sfoggiò un elegante cappello bianco di paglia che fece il giro del mondo attraverso le tante foto scattate durante l’evento. Fino ad allora il copricapo si era chiamato con il nome locale di “Jipi Japa”. Da quel giorno in poi divenne noto in tutto il mondo come “Panama”, malgrado le sue origini siano ecuadoriane. La storia di questo intramontabile accessorio di moda è antica quanto la fibra vegetale di cui è fatto, la Toca o Paja Toquilla, il nome spagnolo che gli indigeni della regione del Manabí, in Ecuador, usano per indicare la “Carludovica palmata”. 

Due sono, in particolare, i villaggi che, ancora oggi, lavorano a mano la Toca, per poi intrecciarla e farne le basi per dar vita ai cappelli, Jipi Japa e Montecristi, i primi ad allacciare, alla fine del 1800, rapporti commerciali con gli Statunitensi che iniziarono a lavorare alla realizzazione del canale centroamericano. Fu solo diversi anni più tardi che la fama di questi prodotti artigianali giunse a Cuenca, a sud est di Guayaquil, nonché nei villaggi di Azuay e Cañar, che sono tuttora i più grandi centri di creazione del prodotto finito. Come avviene la lavorazione della Paja Toquilla? Subito dopo la raccolta delle piante – le tocas – queste vengono divise in strisce sottili che sono raccolte in fasci i quali a loro volta devono essere posti in grotte la cui umidità garantisce flessibilità alle piante per tutto il periodo della lavorazione. Queste vanno quindi immerse in acqua bollente in una soluzione di sapone e sale. I grandi contenitori usati per ammorbidire le fibre vengono chiamati “cogollos”. Solo dopo una lunga fase di asciugatura sotto il sole esse vengono passate ad operaie e lavoranti. La posizione che essi devono tenere è assai scomoda in quanto, per mettere insieme le fibre intrecciate, sono costretti a lavorare chini sullo stampo, al fine di tenere fermo il lavoro mentre si continua l’intrecciatura. Per ultimare un cappello grezzo ci vuole una giornata intera di lavoro e, a seconda della finezza dell’intreccio, gli operai sono in grado di produrre “Panama” delle categorie “Montecristi fino”, “Montecristi superfino” e “Montecristi fino fino”. Per quest’ultima varietà di “Panama Hat”, oggi assai raro, occorrono circa tre mesi di lavoro, mentre un copricapo base frutta agli indigeni da uno a due dollari. Questo il compenso che dà ogni giorno da vivere a persone le quali, a causa della posizione tenuta durante il lavoro, accusano presto problemi alla schiena, mentre le dita delle mani si incurvano in modo irrimediabile. All’interno delle fabbriche di Cuenca, quindi, i copricapi artigianali vengono sottoposti alla sbiancatura, dato che la Toca ha un colore che somiglia molto al giallo paglierino. Per otto lunghi giorni il prodotto finito viene immerso in grandi vasche d’acqua piene di composti chimici che conferiscono pure ulteriore morbidezza ai cappelli. Questi, una volta asciugati, sono privati delle fibre eccedenti e viene data loro, mediante un apposito macchinario, la forma finale, con tanto di apprettatura, eventuale tintura ed aggiunta di nastri neri o colorati. 

Il maggior produttore ecuadoriano di “Panama” è Homero Ortega, il quale fabbrica ed esporta in tutto il mondo i suoi pezzi unici da ben quattro generazioni. Diversi per forma (tonda, con incavo centrale oppure con un’ammaccatura di lato) e per tesa, che può essere stretta, larga o rivolta all’insù, il “Panama Hat” varia non solo per pregio ma anche per colore naturale. Il primo è, come si diceva, dovuto alla trama più o meno fine dell’intreccio, il secondo invece alla natura della Toca utilizzata, la cui gradazione va dal bianco, all’avorio antico, al giallo sbiadito fino al miele. 

Si dice che un “Panama” originale non tema alcun tipo di avversità, in quanto è impermeabile (qualcuno provi ad usarne uno a mo’ di secchio) e resistente agli strappi. Anzi, i cultori del copricapo più “cool” (“favoloso” ma anche “fresco”) del mondo diranno che, pur se stropicciato, esso non subirà alcun danno. C’è addirittura chi lo arrotola e se lo infila in tasca. Per conservarlo al meglio, poi, gli intenditori consiglieranno di bagnarlo spesso oppure di lasciarlo in un luogo umido. Si tratta di un accessorio estivo dal prezzo inarrivabile che è in grado di mantenere fresco il capo anche alle temperature più alte, in quanto al colore bianco, che riflette i raggi solari, si unisce la resistenza delle fibre. 

Si dice infine che un vero conoscitore di “Panama Hat”, al momento dell’acquisto, controllerà il cappello controluce per scorgerne eventuali fori o imperfezioni. Nel qual caso saprà di non trovarsi di fronte ad un pezzo pregiato. E tutto questo è possibile ottenere da una pianta sudamericana somigliante ad una palma che ha fatto la fortuna di molti grazie alle caratteristiche di resistenza e di impermeabilità che la rendono unica sul pianeta azzurro.

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