Sono sempre stata Albert
A febbraio del 2012 è uscita in Italia la pellicola Albert Nobbs (USA/Irlanda, 2011), interpretata da una splendida Glenn Close.
Ambientata nella Dublino del 1800, la vicenda narrata nel film ci propone una donna che, per evitare di morire di fame, si inventa una professione nei panni di un provetto cameriere. Dopo aver fatto il giro dei più rinomati hotel del Regno Unito, forte di una sfilza di lettere di presentazione tutte positive, Albert approda in Irlanda dove, in mezzo alla miseria più nera, riesce a farsi assumere nell’albergo di proprietà di una duchessa ipocrita e tirchia, alla quale neppure un’epidemia di febbri tifoidi riuscirà ad insegnare la carità cristiana.
È all’interno delle mura dell’hotel che si svolge, per la gran parte, la storia di questa donna che si finge uomo, al fine di riscattare la propria misera vita grazie ad anni di stipendi e di generose mance messi da parte per coronare il suo grande sogno: acquistare un negozietto per farne una tabaccheria con vendita di dolci. E così, giorno dopo giorno, mese dopo mese, il nascondiglio che cela al resto del mondo i suoi risparmi si arricchisce di nuove entrate, tutte debitamente registrate a matita su un libriccino nero. A proteggere il cospicuo gruzzolo da sguardi rapaci solo un’asse di legno del pavimento.
La faccenda si complica. Del tutto ignara del suo imminente destino, Albert fa la conoscenza di un imbianchino di nome Hubert Page il quale, a causa di un evento fortuito, scopre la vera identità del perfetto cameriere. Qui avviene la prima svolta del film: Albert trova in Hubert un confidente quando, durante una delle giornate di lavoro dell’operaio, questi la mette a parte di un segreto analogo, il suo. Lui era in realtà la moglie di un balordo che, quasi sempre ubriaco, ogni sera faceva ritorno a casa imbrattato di pittura e, il più delle volte, metteva le mani addosso alla moglie. E così lei raggiunse il limite, abbandonò lo sposo violento – non prima di avergli rubato i vestiti ed i ferri del mestiere – fuggì lontana dal paese in cui viveva e, dopo aver assunto la falsa identità del signor Page, cominciò a proporsi in qualità di pittore di pareti per tutta Dublino.
Sarà Hubert ad aprire la mente di Albert, a farle capire che si può vivere sotto mentite spoglie pur mantenendo intatta la propria identità personale, quella che la donna ha tenuto sepolta per decenni sotto i panni maschili da cameriere, quasi dimenticandosi della sua esistenza di femmina, discriminata da una società maschilista e patriarcale che obbligava le ragazze madri ad abbandonare la prole e a vivere di stenti per il resto della vita.
Quel che ad Albert non è chiaro è come sia possibile che Hubert sia riuscito a contrarre matrimonio con una donna e, nel tentativo di sapere la risposta, fa in modo di raggiungere l’imbianchino a casa sua, dove conosce l’acuta moglie della donna. In un clima d’amore e d’accoglienza Albert – che è sempre stata Albert – narra a Hubert la sua triste storia: abbandonata fin da piccola, non ha mai conosciuto il suo vero nome e, dopo aver subìto una terribile violenza carnale da parte di cinque energumeni, le cui eroiche gesta vennero celate dalla semioscurità di un sottoscala, decide di scappare via da tutto quel dolore e di assumere le mentite spoglie di un giovane cameriere, i cui gesti sarebbero divenuti, con il passare del tempo, impeccabili e degni di grande approvazione da parte della nobiltà britannica.
Al dipanarsi della storia sullo schermo, vediamo Hubert incitare Albert a riprendersi la sua identità personale, cui la donna sembrava aver rinunciato in quel sottoscala lercio tanti anni prima. E così il perfetto cameriere dai modi precisi e gentili si mette a far la corte ad una delle sguattere dell’hotel, una giovane popolana dalle idee chiare che viene circuita da un povero ragazzo mezzo delinquente.
La seconda svolta della complessa sceneggiatura di Albert Nobbs – alla quale ha contribuito la stessa Glenn Close – avviene proprio a questo punto del film, reso un poco lento, forse in modo voluto, dal complicarsi di una vicenda umana che, per ovvie ragioni, deve fondarsi sulla finzione ma, come dimostrerà proprio Hubert alla fine della pellicola, sarà proprio a partire da quella finzione che scaturirà il lieto fine di una piccola tragedia.
Il personaggio chiave di tutta la narrazione per immagini è proprio quello dell’imbianchino Hubert Page, impersonato da una grandissima Janet McTeer, candidata all’Oscar come migliore interprete non protagonista. Hubert rappresenta tutto ciò che Albert vorrebbe riuscire a realizzare: un matrimonio in piena regola con un’altra donna ed il coronamento del suo desiderio più grande, quello di acquistare quel negozietto di tabacchi e dolciumi. Forte di questa nuova, inaspettata amicizia, la donna comincia a pianificare un futuro che, almeno fino ai tre quarti del film, è destinato a risolversi per il meglio.
Chi volesse conoscere l’esito di Albert Nobbs ha due possibilità: vedere il film oppure leggere il romanzo di George Moore The Singular Life of Albert Nobbs da cui, all’inizio degli anni ’80, la drammaturga francese Simone Benmoussa, di origini tunisine, trasse l’opera teatrale interpretata dalla stessa Glenn Close la quale, da quel momento in poi, fece di tutto per portare la vicenda di Albert sul grande schermo.
La storia più o meno recente del genere umano è piena di casi simili a quello di Albert. Se ci si focalizza sul solo periodo situato a cavallo fra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, si può notare come in diverse situazioni, tutte documentate da articoli usciti sui quotidiani, alla morte di insospettabili uomini dei più svariati ceti sociali, i medici che venivano chiamati a decretarne il decesso scoprivano, con loro grande sorpresa, che quello che stavano analizzando era un corpo femminile e non il contrario.
Come nel caso di quel tipo di New York, membro attivissimo del Democratic Party, amico intimo di un senatore del Senato americano che, per quasi mezzo secolo, aveva condotto la sua vita da uomo ed aveva sposato addirittura due donne (L’articolo di giornale uscì anche in Italia su La gazzetta del popolo del 24 gennaio 1901, riprendendo l’originale statunitense, pubblicato sull’edizione del 19 gennaio dello stesso anno del New York Times). La donna in questione si chiamava Murray Hall.
«Benché l’esistenza di Murray Hall possa sembrare straordinariamente singolare, (…) incontreremo, sfogliando le pagine dei quotidiani italiani dei primi decenni del Novecento, altre vicende simili alla sua. Si tratta di un corpus di cronache – prevalentemente di donne che vivevano come uomini e che amarono altre donne – che pone il lettore e la lettrice di oggi di fronte ad almeno due questioni: (…) il fatto che nell’arco di qualche decennio diverse donne scelsero di travestirsi da uomo e così amare e sposare altre donne, adottando astuzie simili, suggerisce l’esistenza di un patrimonio comune di strategie e comportamenti cui attingevano donne di provenienze geografiche e sociali differenti» (fonte: Fuori della norma, a c. di Nerina Milletti e Luisa Passerini, Rosenberg & Sellier, 2007, pagg. 171-173). Così come fece Hubert Page. E così come avrebbe voluto fare la stessa Albert.
Quel che nel romanzo di Moore prima e nell’efficace sceneggiatura di Albert Nobbs poi viene fuori, pur se in modo delicato, appena accennato, è un elemento della cultura lesbica nella storia che, se analizzato oggi, può dirci molto sulla capacità di tante donne di mettere in pratica il loro orientamento affettivo altro senza rinnegare la propria identità di persone, immerse com’erano in una società maschilista che escludeva le donne da qualsiasi disegno sociale proprio a causa del loro genere, che era considerato difettoso per natura, a prescindere; se a ciò si aggiungeva l’orientamento omoaffettivo, alle femmine che amavano le femmine non restava altro da fare che ricorrere al travestimento, pur di attrarre il possibile oggetto dei propri desideri da maschi, al fine di non dare adito a pettegolezzi che ne avrebbero compromesso le vite.
Quando Albert incontra Hubert, ad un terzo del film, comincia a capire che il desiderio affettivo per le altre donne può essere messo in pratica mediante una dissimulazione che passa attraverso la scelta di professioni che, per becera tradizione, erano riservate ai maschi. E quando la donna scopre il confortevole e sereno ambiente famigliare di Hubert e della di lei moglie, sposata in modo regolare – come un uomo sposerebbe una donna – tutto si chiarisce nella sua mente, rendendo la donna ancor più determinata a coronare un sogno che, a questo punto della vicenda, è diventato duplice: sposare la cameriera dell’hotel in cui lavora e, con lei, mettere su famiglia e negozio.
Albert Nobbs non è un film facile da assimilare. Malgrado il dipanarsi alquanto lento della storia, soprattutto nella seconda parte, esso è destinato ad un pubblico che potremmo definire maturo il che, spesso, non fa il paio con il termine “adulto”. Per apprezzare la dolorosa vicenda umana di Albert è necessario fare un’operazione preliminare: spogliarsi di tutti i pregiudizi che, a livello sociale, circondano la cultura lesbica soprattuto nel nostro Paese. Presumere di trovare interessante un tema così controverso, altrimenti, finirebbe per comprometterne la comprensione da parte di tante donne e di tanti uomini che, di fronte allo schermo, sono indotti a pensare che l’unico matrimonio possibile sia quello tra un maschio ed una femmina. Cattolicesimo docet.
A questo link le foto ufficiali: http://albertnobbs-themovie.com/#photos