Descrizione del secondo incontro fra le detenute e Maria Laura Annibali
Daniela Domenici
Di’ Gay Project
Per la prima volta nella mia vita metto piede in un istituto di reclusione. È appena iniziato l’ultimo mese dell’anno ed il cielo sopra Roma è di un azzurro intenso. Un inaspettato quanto gradito tepore mi accoglie mentre varco i cancelli della struttura di Rebibbia.
A passo spedito mi dirigo verso la sezione riservata alle donne, nella cui biblioteca sta per svolgersi la proiezione del docu-film L’altra altra metà del cielo… Continua di Maria Laura Annibali in presenza di un gruppo di detenute. Ad accogliermi, vicino all’entrata, l’autrice insieme alla psicologa e psicoterapeuta Antonella Montano; poco distanti l’avvocata Susanna Lollini e Barbara Ballerio, l’insostituibile segretaria dell’associazione romana Di’ Gay Project. Devo a queste persone – e ad altre che stanno per raggiungerci – se tra poco potrò stringere la mano ad alcune persone piegate dalla vita, con le quali dialogare di lesbicità, orientamento affettivo e sessuale e amore “altro” dietro le sbarre.
Oltrepassando la soglia del braccio femminile di Rebibbia mi soffermo per un attimo a pensare al dono grande che mi è stato concesso: tra poco avrò il raro privilegio di ascoltare le storie spezzate di alcune persone che la vita è riuscita a piegare al suo volere, lasciando loro solo una grande, feroce dignità. Una volta giunto necorridoio adiacente alla biblioteca, il nostro gruppo viene accolto da circa venti donne; sorrido loro, mentre le saluto, il taccuino e la penna in mano, per poi dirigermi nel piccolo vano destinato alla raccolta dei libri. Alla spicciolata le detenute entrano in biblioteca e prendono posto in fondo alla saletta; qualcuna è intimidita, altre sono più decise, un paio mostra spavalderia, ma una caratteristica sopra a tutte le accomuna: la fame di conoscenza. I loro sguardi sono attenti, penetranti, tale è la voglia di sapere che cosa accade nel travagliato mondo lesbico italiano.
Dopo una breve presentazione da parte nostra, cui segue un vivace dibattito iniziato dalle ragazze, viene lasciato spazio alla proiezione del video di Annibali; ed ecco fare la sua comparsa in sala la consigliera Patrizia De Rose, a cui si deve la firma del progetto che ha dato la possibilità all’autrice di far conoscere i suoi lavori all’interno degli istituti di pena del Lazio.
Il vociare delle carcerate si fa spesso intenso, mentre le immagini scorrono sullo schermo, segno che il loro interesse è vivo e tale resterà sino ai titoli di coda. E ricominciamo ad ascoltarle, mentre i loro occhi riprendono a rivolgerci mute domande che, ben presto, vengono verbalizzate. L’argomento che più di tutti preme loro che venga affrontato riguarda i rapporti d’amore fra donne in galera. A noi spetta il compito di fornire solo pochi spunti, affinché possano raccontarci come vivano quelle storie. E così veniamo a sapere che, mentre alcune di esse non si considerano lesbiche, bensì femmine etero le quali, in mancanza dei rispettivi amanti o mariti, fanno sesso con altre detenute, per altre è di fondamentale importanza rivendicare l’appartenenza ad un insieme di persone con le quali hanno in comune un differente orientamento sessuale; pertanto, chi parla di rapporti carnali consumati per necessità e solitudine tende a tralasciare l’aspetto affettivo mentre, chi si definisce lesbica, con grande determinazione reclama quell’appartenenza, come colei che afferma: «Beh, la storia è semplice… Quelle che entrano qui come lesbiche non cambiano direzione una volta uscite e fanno molta fatica a comprendere le compagne di cella che si definiscono etero ma che intrattengono rapporti (sottolineando il termine con una decisa intonazione della voce) con altre donne per quella che chiamano necessità…»
Il gruppo di donne fatica, ancora, a mantenere un tono di voce che ci consenta di comprendere le parole di tutte e mi accorgo di essere io ad aver fame delle loro considerazioni, di quel fiume di parole – spesso impetuoso – che mi dà modo di conoscerne paure, dubbi e motivazioni. E quello scambio di idee e di vita mi arricchisce e mi consente di capire che, al di là di tutti i discorsi, a contare sempre e comunque, nella vita, è l’amore, anche quello vissuto dietro le sbarre, a stretto, strettissimo contatto corporeo con persone che, volenti o nolenti, operano uno scambio di donnità (una parola che non si trova sui dizionari. Infatti l’ha coniata Edda Billi) con chi sta loro accanto. Poco importa se qualcuno di quell’amore tende a negare l’esistenza. E mentre penso a tutto ciò, una delle responsabili del braccio femminile di Rebibbia ci ricorda che s’è fatto tardi e che è ora di andare.
Mentre percorro a ritroso il breve tragitto che mi ha portata a conoscere quel piccolo gruppo di donne, tanto prezioso per la mia crescita personale, mi soffermo a pensare a quanto davvero siano importanti per tutte e tutti noi i rapporti interpersonali, poiché solo grazie ad essi possiamo conoscere chi è altra/o da noi e superare i rispettivi pregiudizi.
Che cosa mi sono portata via da quell’incontro? Tanta ricchezza interiore, insieme alla certezza che la brama di conoscenza, che ho letto negli occhi delle poche persone che ho avuto di fronte a me per quel breve frammento di vita, non può essere annullata una volta messo piede in un centro di reclusione, qualunque ne sia il motivo; essa fa il paio con la dignità e con la ferma volontà di non arrendersi, malgrado tutto. Anche questo è amore. Se ne faccia una ragione chi trascorre la vita a dividere il mondo in steccati e pretende di considerarsi sempre dalla parte giusta. Quello no, non è amore.
Lidia Borghi