Quei quattro minuti di puro delirio armonico
Recensione pubblicata sul n° 37 di Tracce
Immagina di recarti al cinema per vedere un film la cui trama ti ha suscitato una curiosità tremenda; immagina poi di pensare, appena passate le prime scene sul grande schermo, che il titolo del film mal si concilia con il dipanarsi di una storia dura, a tratti cruda per la violenza mostrata al pubblico pagante, ma avvincente a tal punto da tenere le persone incollate alla poltrona per quasi due interminabili ore; immagina, infine, mentre gli ultimi 240 secondi di pellicola si srotolano davanti ai tuoi occhi, di provare un’emozione così forte da sentire che, di colpo, l’intero tuo corpo si è riempito di brividi.
E solo allora comprendi che, durante lo scorrere dei titoli di coda, la tua presenza in quella sala cinematografica ha acquistato un senso proprio grazie a quei quattro minuti di puro delirio armonico, giustificando la visione dell’intero film. Tutto ciò è Quattro minuti(Vier minuten, Germania, 2006, 112′, http://www.vierminuten.de/).
Traude Krüger (Monica Bleibtreu) è l’anziana maestra di pianoforte che, da quarant’anni, si reca nella prigione femminile della cittadina tedesca di Luckau per insegnare ad alcune carcerate a suonare il pianoforte. Nonostante la primavera incipiente l’aria è frizzante, ma all’anziana donna non importa: il nuovo pianoforte, acquistato a fronte di enormi sacrifici economici insieme al mite secondino Mütze (Sven Pippig), sta per essere consegnato. Uno splendido mezza coda che viene lesionato durante il trasporto. Dalle nebbie del suo passato riaffiora nella mente di Traude e sullo schermo un insieme di ricordi ora colmi d’amore ora intrisi di dolore, mentre la donna si accorge che fra le prigioniere delle alte mura del carcere si nasconde un vero e proprio talento musicale: Jenny Von Loeben (Hannah Herzsprung). Feroce, violenta, e ribelle quanto abile a far scorrere le lunghe dita sui tasti del pianoforte, la ragazza è dentro perché l’accusa avrebbe provato la sua colpevolezza nel brutale omicidio di un uomo, la cui testa venne ritrovata in un cassonetto dell’immondizia. Fine pena mai. Traude ne intuisce la bravura innata e, nonostante la pessima fama della giovane, decide di seguirla e di ricondurla ad un’esistenza dignitosa – malgrado il carcere – attraverso la musica classica. L’empatia fra l’anziana insegnante e l’omicida stenta a farsi strada nei rispettivi cuori, a causa del caratteraccio di Jenny la quale, durante la lezione di prova, riduce il volto dell’ingenuo Mütze ad un ammasso sanguinolento. L’uomo resterà con la mandibola immobilizzata per mesi. Mentre Traude tenta di riportare a galla quel che resta dell’umanità della sua talentuosa allieva grazie ai brani immortali di autori quali Mendelsson, Schubert, Mozart e Behetoven, quel tragico passato torna a tormentarne la mente e così vediamo l’insegnante abbracciata alla persona amata poco prima che la Germania nazista scegliesse di mettersi dalla parte del torto invadendo la pacifica Polonia: la seconda guerra mondiale era alle porte. Traude e Jenny, Jenny e Traude: due donne assai diverse eppure attratte in modo magnetico l’una dall’altra, malgrado la giovane prigioniera faccia di tutto per mostrarsi violenta e riottosa, per nulla disposta a sottostare alla ferrea disciplina prussiana della sua insegnante. Traude ha infatti posto quattro condizioni precise a Jenny, cui la giovane dovrà attenersi in modo scrupoloso, pena la cessazione di qualsiasi rapporto fra le due: regola numero uno l’umiltà; regola numero due la cura delle mani, indispensabili per qualsiasi pianista; regola numero tre la pulizia; infine, regola numero quattro il concorso per giovani pianiste/i emergenti, che non devono aver superato i vent’anni d’età. Jenny dovrà arrivare in finale. E così le vicende personali delle due protagoniste, tanto diverse fra loro eppure così vicine a causa del dolore patito, finiscono per intrecciarsi, nonostante la giovane talentuosa faccia di tutto, sino alla fine del film, per boicottare quel difficile rapporto umano, basato sulla fragilità di entrambe, l’una distrutta dal dolore per la perdita della persona amata, l’altra tradita nei suoi sentimenti più profondi da un padre adottivo (Vadim Glowna) che le ha usato violenza carnale, anche se nel passato di Jenny c’è pure una gravidanza terminata in modo tragico. Nonostante l’imponente presenza scenica della giovane carcerata, cui fa da contraltare la rigida disciplina della sua insegnante, è il tempo andato di Traude a toccarci di più il cuore: bimba prodigio del pianoforte durante il periodo fra i due conflitti mondiali, la donna lavorò come infermiera nell’ospedale di Luckau, dove conobbe la donna di cui si innamorò perdutamente. Gli ufficiali nazisti di stanza nel nosocomio ne intuirono il carattere difficile, rigido e, quando ne scoprirono quella che per loro era una pericolosa amicizia con una nemica comunista del popolo tedesco, le intimarono di smettere di frequentarla. La donna amata da Traude era magra, esile, bionda, di una bellezza delicata. Quando venne fatta prigioniera da quegli stessi ufficiali, di lì a poco venne preparata per l’esecuzione; durante la rasatura dei capelli l’ospedale venne bombardato dall’aviazione alleata. Il cerusico morì e la donna, stordita per lo scoppio di una bomba poco distante da lei, fu trascinata a forza in un cortile retrostante dove, il cappio al collo, subì l’impiccagione. Da quel momento in poi il cuore di Traude si chiuse in modo definitivo e l’unico interesse della giovane infermiera fu quella musica classica che, quarant’anni più tardi, tenterà di far piacere alla ribelle Jenny, per nulla intenzionata a ricominciare a suonarla, dopo aver trascorso gli anni dell’adolescenza in giro per il mondo a fare concerti. La vera passione della fanciulla dall’anima nera è infatti l’Hip Hop, che la razzista Traude odia in quanto inventata dai negri. Jenny giungerà in finale ma, macchiatasi dell’ennesima violenza ai danni di un’altra prigioniera, il direttore del carcere, l’accondiscendente Meyerbeer (Stefan Kurt), le vieta di lasciare l’istituto di pena per prendere parte all’ultima fase del concorso. Non le resterà che evadere, complice la sua rigida insegnante dal cuore tenero la quale, poco prima dell’esibizione della ragazza, le svelerà il suo orientamento affettivo e sessuale. Sarà a questo punto della pellicola che il fragile apparato di finta durezza dell’anziana donna si sgretolerà del tutto, a causa dell’impetuosa presenza di quella giovane donna dal carattere tanto forte, il cui fascino perverso riesce a perforarne il cuore. Ed eccoli, quegli ultimi, intensissimi quattro minuti, durante i quali il talento di Jenny Von Loeben fuoriesce in modo prorompente, a tratti violento, di fronte al pubblico attonito dell’auditorium in cui si svolge la fase finale del concorso per giovani talenti pianistici. Un puro delirio d’armonie che si intrecciano nell’aria, mentre le abili mani della carcerata scivolano sicure ora sui tasti dello strumento ora sulle corde, pizzicate e violentate ora sull’ebano della struttura. Il finale è tutto da vedere e non è svelabile, giacché chiunque dovrebbe vedere questo grande film dall’esito sorprendente. Un unico, irrefrenabile brivido che sale fino al fermo immagine che precede i titoli di coda.
Il regista tedesco Chris Kraus è considerato, in patria, un giovane talento cinematografico nonostante sia quasi cinquantenne ed abbia al suo attivo diverse sceneggiature – tutte premiate – scritte per famosi registi quali Detlev Buck; inoltre la pellicola vanta la pluripremiata direttora della luce Judith Kaufmann, Susana Sánchez, una grande make-up artist nota in tutto il mondo e la compositora Annette Focks, che ci ha donato un commento musicale davvero coinvolgente. Infine Quattro minutisi avvale della bravura di una stupenda attrice tedesca, Monica Bleibtreu, all’epoca sessantaduenne, che dovette sottoporsi ad un trucco complesso per trasformarsi nell’ultraottantenne Gertrud/Traude, mentre la giovane Hannah Herzsprung (nota anche per aver impersonato la figlia adolescente di Ralph Fiennes nell’intensissimo The Reader) – all’epoca al suo esordio nel cinema – fu tanto abile da surclassare le altre 1.200 candidate al ruolo di Jenny Von Loeben dopo una ricerca durata un anno intero e poté impersonare con assoluta credibilità la giovane disadattata violenta e brutale con il talento per il pianoforte.
Diversi sono i piani di lettura di questa complessa opera cinematografica, nella quale Chris Kraus ha usato il pretesto della giovane ribelle per raccontarci qualcosa di più profondo, fra cui l’uso malato di un talento giovanile da parte di certi genitori che antepongono l’ambizione personale all’amore filiale. E poi c’è l’analisi del rapporto conflittuale fra l’anziana insegnante e la giovane riottosa, l’una intenta a mantenere le distanze umane con la carcerata e l’altra impegnata ad autodistruggersi nonostante la ciambella di salvataggio lanciatale da una persona disillusa. E, infine, il rapporto d’amore fra le due infermiere, che si dipana lento sotto le bombe della seconda guerra mondiale fino al suo tragico epilogo, che lascerà Traude nella prostrazione psicologica più nera, tanto da indurla a trasformare il suo cuore in un blocco di cemento. Almeno così la donna è indotta a ritenere, fino al giorno in cui, quarant’anni dopo, l’imperiosa presenza di quella piccola delinquente non contribuirà a sgretolare quel pesante fardello chiuso nel suo petto.
Il tema della lesbicità – come suole chiamare il complesso insieme dei sentimenti amorosi fra donne la grande femminista lesbica Edda Billi – in questo film sembra appena accennato, anche se ne fa da filo conduttore, poiché non è possibile rimuovere i sentimenti amorosi – passati o presenti – dalla nostra mente e ciò accade in modo del tutto indipendente dalla nostra volontà e dal nostro orientamento affettivo e sessuale.
Una curiosità: Chris Kraus ha dedicato la sua pellicola alla vera Gertrud Krüger, una vecchia signora conosciuta in gioventù all’interno del collegio in cui per otto anni fu studente; l’uomo la ricorda come una donna di grande rigore, quasi prussiana, con indosso una camicia ormai passata di moda che, in una casa-famiglia, insegnava pianoforte a chi la occupava.
Un messaggio, più di tutti gli altri, ha colpito la mia mente e la mia anima, quando ho visto Quattro minutiper l’ennesima volta: che noi crediamo o meno in Dio, ad ogni essere umano è stato lasciato in dono un talento, piccolo o grande che sia e quel talento va coltivato. Lo dobbiamo a noi stesse e a noi stessi. E, quando ci càpita di trovare, lungo il nostro cammino, una persona che si offre di aiutarci a praticarlo, dovremmo essere tanto umili da accettare quella mano tesa verso di noi, perché essa appartiene a qualcuna/o che ha il raro dono dell’educatrice/tore ovvero un individuo che, a pelle, dopo un solo sguardo, riesce ad indovinare quel nostro talento e può fare davvero molto per noi. A patto che glielo lasciamo fare. Così fa Traude nei confronti di Jenny in Quattro minuti: «Dio deve averle dato un dono speciale… Penso che lei sia una persona spregevole, ma riconosco che ha talento… E per questo ha il dovere di coltivarlo. Quando avrà pagato per ciò che ha fatto oggi a quell’uomo, io potrò offrirle il mio aiuto. Questo aiuto non riguarderà lei come persona, mai! L’aiuterò a migliorare come pianista, ma non come persona. Ci rifletta.»
Lidia Borghi