Linguaggi che dividono
di Lidia Borghi
La contrapposizione Nord/Sud è una litania che ci viene propinata dalla notte dei tempi della discriminazione. Luciano De Crescenzo – ‘o professore – famoso per le sue perle partenopee di saggezza e per le incursioni filosofiche di un ingegnere illuminato nella filosofia del vivere quotidiano, soleva dire che «ognuno è meridionale di qualcun altro», rispondendo così, con elegante efficacia, al celodurismo di leghista memoria.
L’antitesi geografica è dura a morire e ha finito per confluire nel magro vocabolario di quante e quanti, incapaci di utilizzare un linguaggio ricco, in merito al rispetto e all’accoglienza, inciampano negli stereotipi più resistenti alla smacchiatura del vivere civile.
Le antinomie riconducibili a quella che pretende contrapposti il Nord e il Sud l’un contro l’altro armati sono infinite, come la rozza superficialità umana che vede galleggiare come tanti rifiuti organici sul mare della vergogna, frotte di individui capaci solo di innalzare di continuo muri mentali, anziché sforzarsi di incontrare – in senso cristiano – l’altro da sé; così ecco che il nero fannullone viene contrapposto al bianco laborioso, la femmina isterica in sindrome premestruale al maschio manager rampante di qualche holding, nel cui consiglio di amministrazione siedono altrettanti ometti incravattati che non vedono al di là del loro naso.
Che dire, poi, della persona in sedia a rotelle, che si vede scippare l’unico posto auto libero in centro città da parte di qualche automobilista in Suv che, non pago di aver violato il Codice della strada, molla la macchina di traverso, come fosse una montagna di sterco, invadendo pure il marciapiedi? Per non parlare del contrasto etero/omo: vi siete mai chieste/i come debba sentirsi una coppia di donne o di uomini che non possono accedere allo statuto del matrimonio egualitario, in quanto in Italia non esiste nulla del genere?
Avete idea della vita che conducono una ragazza lesbica o un ragazzo gay, ai quali viene impedito di condurre un’esistenza serena, poiché si trovano di continuo a doversi difendere dallo stigma sociale e dal minority stress sul luogo di lavoro, nei locali pubblici ed in famiglia? A quante/i di voi è mai capitato di avere una creatura non proprio in linea con lo stereotipo corrente, alla quale venga rifiutato di partire in pullman per la gita di classe, solo perché un manipolo di genitori sciamannati e imbufaliti si è opposto in modo feroce alla sua partecipazione?
Non c’è nulla da fare: come la giri la giri, finisce che qualcuna/o si sente superiore a qualcun altro, in nome di becere convenzioni sociali che, lungi dall’essere norme regolate dai Codici di una nazione civile, con il passare del tempo sono diventate regole. È così che nascono le discriminazioni: basta un pur minimo pregiudizio, fatto girare in modo subdolo e serpeggiante da qualche untore, per inchiodare al legno della croce la persona debole, diversa, disabile od omosessuale di turno, per far sì che quell’invisibile muro si eriga da sé e il gioco è fatto: più la stupidità umana è veloce ad agire, più steccati vengono costruiti, per isolare coloro che non riescono a difendersi da sé, in quanto non hanno voce e linguaggio per farlo.
La stampa più o meno schierata non fa eccezione e, a seconda della minoranza di turno da individuare e analizzare con aggettivi sempre più efficaci (sic!), finisce per prestarsi al gioco crudele del dalli al diverso perché, così, si ottengono più cinguettii, più like, più click, più copie vendute di carta inchiostrata; poco importa se si infanga la vita di persone inermi, cui non viene data la possibilità di parlare per raccontarsi e per spiegare che, dietro quelle azioni in apparenza innocenti, si nasconde una violenza verbale di proporzioni inimmaginabili che va sotto il nome di hate speech.
Ogni volta che una delle tante – troppe – minoranze oppresse legge o ascolta di sé cose false, tendenziose, gravi, offensive, discriminanti e scandalose per errori e omissioni, senza che ai suoi componenti venga data la possibilità di parlare, l’effetto è quello dell’impotenza, come accade a una persona che giace sul tavolo operatorio alla quale un trauma profondo impedisca di usare il linguaggio per urlare, ribellarsi, spiegare, raccontare con dovizia di particolari.
È, questo, il destino riservato a coloro che non vengono interpellati, poiché è qualcun altro a parlare al posto loro, a raccontarne in modo distorto le vite, a disegnarli brutti, sporchi e cattivi ed è questo uno dei mezzi più comuni di cui il potere si serve per dividere le persone e metterle le une contro le altre.
Non voglia il cielo che, un giorno, coloro che pensano di vivere nella cosiddetta normalità, siano costretti dalle circostanze della ita a fare i conti con una di quelle categorie discriminate che loro stessi hanno contribuito a disegnare con aggettivi falsi ed escludenti.