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Le unioni civili un anno dopo l’approvazione della legge Cirinnà. Perché non sono un fallimento

di Lidia Borghi


L’undici maggio 2016 veniva approvata la legge Cirinnà sulle unioni civili e, a un anno da quell’evento, diversi sono stati i bilanci proposti dal giornalismo italiano di tendenza, primo fra tutti quello a firma Liana Milella dalle pagine de La Repubblica il cui articolo, uscito in versione cartacea il 7 maggio scorso, era intitolato “Solo 2.800 sì a un anno dalla legge. Niente corsa alle nozze gay, flop al Sud”, poi modificato on line in “Unioni civili: finora 2.800 sì”;

dopo le proteste delle associazioni LGBTQI e non solo attraverso i social network, Maria Novella De Luca ha scritto un pezzo che avrebbe dovuto calmare gli animi e che contiene, nel titolo, un’avversativa pesante: “Unioni civili, perché è una conquista straordinariaal di là dei dati”; a fare eco al quotidiano di via Cristoforo Colombo è stato, il 12 maggio l’Avvenire che, attraverso Antonella Mariani, ha rincarato la dose parlando di “sboom”, il che ha sollevato da più parti prese di posizione e scritti di tenore opposto; a essersi espresso in tal senso è stato addirittura, come vedremo, il quotidiano delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia, Riforma.

Milella ha snocciolato un po’ di numeri: nei primi tre mesi del 2017 si sono svolte 369 cerimonie, per la gran parte a Roma e Torino, anche se il dato totale è di 2.802 unioni in tutta Italia, mentre quello del 2016 ammontava a 2.433. “Non c’è che dire – ha aggiunto Milella – decisamente un flop. Che non può non sorprendere, vista la battaglia durissima e lo scontro politico per arrivare alla legge.” Veniamo quindi allo “sboom” di Avvenire: la collega Mariani, mostrando di aver copiato a man salva il teminoscolastico di Milella, ha citato “i reali bisogni delle famiglie”, come se quelle formate da persone dello stesso sesso, con o senza prole, non fossero tali, quindi ha parlato di risultati non certo clamorosi, come attesterebbe la mancanza di code agli uffici comunali. Perciò, dopo aver prodotto un bel po’ di cifre, la giornalista ha citato il pensiero contrario alla linea del quotidiano della Cei di alcuni esponenti del Partito Democratico, non ultimo il Ministro della Giustizia Andrea Orlando in merito allo stralcio della stepchild adoption, che la giornalista ha equiparato alla pratica della maternità surrogata, facendo un paracarro più che un paragone e rispolverando una polemica, sterile quanto pretestuosa, scatenata qualche mese fa da un gruppo di donne appartenenti al femminismo clericale che cavalcano l’inesistente lobby gay e la teoria gender, dimostrando oltretutto di ignorare decenni di studi di genere. Tra l’incursione de La Repubblica e quella di Avvenire sulla questione è intervenuto Marco Magnano, redattore di Radio Beckwith Evangelica, con una serie di considerazioni che possono essere riassunte nel sottotitolo del suo articolo on line: “Chi parla di ‘frenata’ nelle unioni civili sbaglia non solo nel metodo ma anche in termini di senso, perché le leggi che garantiscono diritti civili affermano prima di tutto un principio”. Sarebbero sufficienti solo queste parole per archiviare una questione che ci pone di fronte a un quesito: davvero quelle letture di segno opposto rispetto all’efficacia della legge Cirinnà hanno divulgato la verità dei fatti oppure quelle giornaliste hanno fatto sfoggio, per l’ennesima volta, della loro disonestà intellettuale pur di dare un’immagine distorta della realtà dei diritti civili per le persone LGBTQI? A proposito dei numeri snocciolati dalle due colleghe, a intervenire è stato Fabio Perroni, membro di REFO (Rete Evangelica Fede e Omosessualità) il quale, intervistato da Magnano, ha detto che “c’è un errore anche dal punto di vista numerico, prima di tutto perché i dati delle unioni civili non sono ancora pubblici, visto che l’Istat li sta ancora elaborando. Inoltre una frenata può esistere solo se c’è il termine di paragone con l’anno precedente.” I quotidiani in questione hanno quindi paragonato i numeri ai diritti umani, dimostrando per l’ennesima volta che per le giornaliste e i giornalisti che vi lavorano le persone sono opinioni e non individui cui vanno gli stessi diritti del resto della gente.

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