L’amore autentico. Omosessualita’ e fede, due madri raccontano
Intervista a Lidia Borghi Sagone
Link di pubblicazione della seconda parte
La felicità è correlata a essere se stessi, essere se stessi è correlato all’identità. Qual è la tua identità? Chi sei tu?
Che bella domanda. Sono prima di tutto una persona di genere femminile e, giunta alla soglia dei cinquant’anni, questo tuo quesito mi offre la possibilità, mentre provo a rispondere, di fare pure un bilancio di questo mezzo secolo durante il quale, a livello storico, l’Italia ha avuto più guai che una vera e propria evoluzione nazionale, se si pensa che la mia generazione è figlia dei figli e delle figlie della Seconda guerra mondiale, il periodo più terribile – almeno sino ad ora – che l’Umanità abbia mai conosciuto, durante il quale i miei genitori patirono fame e sfollamento, rifugi antiaerei e convivenza forzata, in una grande città come Genova, con l’esercito nazista; a nostra volta, noi nate e nati negli anni ’60, abbiamo vissuto l’illusione di un boom economico, da cui ben poche famiglie italiane possono dire di aver tratto benessere. Io ricordo solo il dolore di tante serate, trascorse ad osservare mia madre e mio padre far di conto, per mettere insieme il pranzo con la cena. Mio padre vinse un concorso come manovale in Ferrovia nel 1969 ed il suo primo stipendio non raggiungeva le settantamila lire. Mia madre venne assunta nelle Poste nel 1977, dopo aver superato una prova concorsuale, per preparare la quale trascorreva i suoi pomeriggi insieme a me a ripassare i fiumi della Penisola, la filastrocca della Alpi e le province nazionali. Ci pensi? Fu solo con il doppio stipendio che la mia famiglia poté tirare un sospiro di sollievo ma, nel frattempo, gli anni ’80 stavano già bussando alle porte. Io ricordo con nettezza adamantina che, tra il disastro di Chernobyl e la caduta del muro di Berlino, la persona che stava vivendo la mia vita non ero io… Era come se io, avulsa da quel complicato contesto socio-famigliare, mi osservassi dall’alto, mentre annaspavo alla ricerca spasmodica di me stessa. Presa la Maturità classica nel 1986, con un anno di ritardo, rispetto alla mia leva scolastica, poiché quel mio stato di prostrazione mentale perdurante finì per minare pure l’apprendimento ginnasiale, mi iscrissi all’Università e cominciai a buttarmi a capofitto nei libri di Storia, pur di capire tutti quei meccanismi perversi, messi in atto dai maschi belligeranti di ogni latitudine, per meri scopi di potere economico; fu allora che mi appassionai alla cronologia storica ed alla storia definita minore, ma di enorme impatto sociale, che vede le masse soffrire e subire le sorti avverse di quel terribile potere. E, mentre tutto quell’apprendimento mi arricchiva, la mia vita di persona avulsa continuava a mia insaputa; a me non restava che scandire le mie giornate di femmina asessuata, alternando ai miei stati di sonno una veglia casalinga fatta di studio, pulizie, cibo fagocitato (più era artificiale, sapido o dolce e meglio era), bevande gasate a profusione – fu in quel periodo che sviluppai la mia intolleranza alla caffeina – faccende domestiche, esami universitari e noia, tanta, incommensurabile noia.
Perché l’orgoglio è legato all’affermare se stessi o comunque ne è la base per diventarlo?
Sai, io stessa, più volte, ho provato a dare una risposta a questa domanda e, in realtà, mi son resa conto come l’orgoglio – e credo dovrebbe essere così per chiunque – sia più un traguardo che una base di partenza o, almeno per me, così è stato: prima è giunta prepotente in me la consapevolezza, soffocata per decenni, di essere lesbica, poi mi sono dedicata alla scoperta o, meglio, riscoperta, di una parte della mia identità personale, che era rimasta sepolta sotto i chili di pregiudizi cui ho fatto cenno sopra; fu solo dopo tutto ciò che in me è scattato l’orgoglio ovvero quella potente sensazione di soddisfazione per essermi ritrovata, unita alla volontà – almeno all’inizio – di far sapere a tutto il mondo del mio orientamento sessuale; fu allora che, per me, cominciarono i guai: la mia compagna di allora mi fece notare – ed aveva ragione da vendere – che, prima di potersi definire lesbiche dichiarate, occorre accettare che la società ci faccia oggetto di attacchi omofobici tutti i giorni che Dio manda in Terra; ricordo che Laura mi domandò, un giorno: “Davvero tu ti ritieni pronta ad affrontare lo stigma sociale?” La mia risposta fu un no colmo di dispiacere, dopo di che commentai, affermando che, da quel momento in poi, avrebbe avuto inizio la mia personale lotta civile per difendere ma, al contempo, mostrare con le dovute cautele, quel pezzo tanto importante della mia identità di persona appartenente al genere umano. E, in tutto ciò, l’orgoglio riveste un ruolo essenziale ed indispensabile, poiché è la molla che ti spinge a trovare o ritrovare dentro di te risorse inaspettate di coraggio, che ti sarà utile nei momenti più duri del resto della tua vita, quando tutt’intorno a te avrai solo gruppi umani eterosessuali pronti a sciorinarti la favoletta dell’amico gay tanto caruccio, le cui vicende diventano l’oggetto preferito di conversazione, durante le riunioni a casa di amiche ed amici. Solo per farti un esempio.
Mi ha molto colpito quando parlando della tua giovinezza ti sei definita come un “ninnolino che veniva spolverato di tanto in tanto”. Come ti sentivi?
Mi sentivo come un piccolo oggetto – di solito un animaletto – che trova posto solo su qualche ripiano di quelle bacheche che le nostre madri ci regalavano, durante l’adolescenza, affinché vi potessimo riporre tutte le cosette inutili e stupide ricevute in dono dalle amiche; se penso a me, in quel periodo, mi vedo davvero così: un ninnolo, un minuscolo soprammobile che ha bisogno di una manutenzione quasi inesistente, poiché è sufficiente spolverarlo di tanto in tanto. Sì, la mia adolescenza e la gran parte del periodo seguente, quello di studente universitaria, furono da me vissuti – o non vissuti – in questo modo, come ho accennato nella risposta ad una domanda precedente: studiavo come una matta e, già dal Liceo, nel circondario ero diventata famosa per essere la secchiona bruttina, occhialuta e mancina che stava sempre sui libri e sui vocabolari di Italiano, Latino e Greco per cui, quando scelsi la Storia per approfondire i miei studi superiori, oramai la mia fama mi precedeva da un bel po’; per il resto, il frutto di tutte quelle ore di lavoro si traduceva in voti altissimi sul libretto della mia facoltà. Come mi sentivo, Sara? “Triste e solitaria”, come la protagonista di quel brano di Cristicchi in cui la fanciulla in questione ripassa “bene la lezione di filosofia” nella sua “stanzetta umida”; con l’unica differenza che quella persona si ritrova incinta di una creatura, di cui dovrà presto render conto a chi le paga le rette e lo studio lontana da casa. Malinconica, asociale, sola come una canina randagia, senza amicizie vere e, quel che è peggio, priva di un’amica o di un amico del cuore, cui confidare le mie pene esistenziali. Ho conosciuto presto la solitudine, in tenera età e, da allora, ogni volta che devo attraversare un periodo di isolamento, il cuore mi si fa piccolo piccolo e mi ritrovo ad invidiare coloro che, a differenza mia, riescono a stare bene con se stesse/i, avendo accettato questo stato dell’essere, che qualsiasi guida spirituale non esiterebbe a definire il migliore, per praticare l’introspezione e la meditazione.
Quando hai capito di essere lesbica e come hai vissuto interiormente questa scoperta?
Ricordo che si era all’incirca a maggio del 2007 o giù di lì e che, ad Aversa, la città in cui vivevo e lavoravo, faceva già alquanto caldo; mi colpì molto la vicenda personale e professionale della fotografa Alex Edison – colei che ha sposato, di recente, la grande attrice Jodie Foster – figlia d’arte di un noto caratterista hollywoodiano di nome David: Edison era tredicenne quando, con un terrore cieco, si rese conto che a piacerle erano le sue coetanee e non i ragazzi; visse la cosa in modo assai negativo e, all’epoca, solo la sorellina si rese conto che Alex era sconvolta da qualcosa, che considerava tanto più grande di lei. La fanciulla adolescente si liberò con grande sollievo di quel pesante fardello e, con suo immenso stupore, si rese conto che la sua piccola congiunta non la stava giudicando e che, anzi, in quel momento di verità le offriva una complice ed un’alleata preziosa, per preparare il terreno migliore al coming out in famiglia. La vicenda personale di Alex Edison è pubblica ed è rinvenibile sul web ed io la scoprii, a suo tempo, poiché una delle mie attività editoriali, nella redazione in cui lavoravo come copy e web editor, consisteva nello spulciare internet, alla ricerca di notizie utili a rinforzare e migliorare l’immagine dell’azienda di marketing multi livello per la quale lavoravo; quel che non sapevo e che, di lì a poco, mi sarebbe stato del tutto chiaro, era che Edison aveva partecipato come special guest ad alcuni episodi della serie lesbica americana più famosa e, per allora, l’unica, in tutto il mondo: The L Word. Il resto lo scoprii con quella curiosità che mi ha sempre contraddistinta e con una voglia di approfondire le testimonianze altrui, che sarebbe diventato il mio tratto caratteristico di studiosa, attivista dei diritti umani e pubblicista, ancor prima che scrittrice. Poi tutto, intorno a me, cominciò a parlarmi di omosessualità, soprattutto femminile: complice la presenza, allora, nella mia vita, di un’amica bisessuale e grazie ad una sua frase rivelatrice, in pochi giorni, dalla mia scoperta della famosa fotografa lesbica di Los Angeles, realizzai che, fino a quel momento e per decenni, mi ero raccontata un sacco di frottole. Poi, un pomeriggio, andai a fare acquisti a Napoli con un’amica carissima – allora receptionist nell’azienda in cui lavoravo – il cui affetto e la cui alta stima nei miei confronti, in questi anni mi hanno sempre accompagnata, pure nei momenti più bui: Maura è una persona speciale, sensibile, accogliente, acuta osservatrice, una di quelle curatrici d’immagine per vip che, con una sola occhiata, è capace di dirti che cosa ti starebbe bene indosso e quali pensieri ti stiano frullando per la mente; ricordo che, esauste e con i piedi doloranti, dopo aver percorso via Toledo e zone circostanti per l’intero pomeriggio, ci accasciammo sulle sedie di un tavolino di piazza della Carità e, dopo aver posato pacchetti e pacchettini ai nostri piedi, ordinammo da bere ed io, come se nulla fosse, le domandai: “Amica mia, ricordi che ti parlai di Alex Edison? Che ne pensi? A me ha fatto molta tenerezza la sua vicenda personale e, soprattutto per quanto riguarda il dolore da lei provato, in famiglia, nel tentativo di non farsi cacciare dai genitori, una volta che questi avessero scoperto di avere una figlia omosessuale. Non ritieni che una persona debba essere se stessa, pur se a costo di enormi sacrifici? Io sono rimasta davvero molto colpita da tutto ciò.” La risposta della mia amica e confidente fu quanto di più accogliente e bello una donna, che ha appena scoperto di essere lesbica, possa ricevere: “Amica mia, ognuno deve essere ciò che vuole e ritiene di voler essere! Ci mancherebbe che dovessimo prendere per buono il giudizio altrui, in merito a ciò che siamo; scherzi o fai sul serio? La vicenda della fotografa è bellissima, soprattutto per quanto riguarda la reazione dei suoi famigliari. Non mi riferisco tanto alla sorellina, quanto alla madre ed al padre, due persone accoglienti che, anziché giudicare la figlia, ne hanno accettato ogni aspetto, omosessualità compresa.” Ricordo di aver provato un sollievo enorme, nel ricevere quella sua risposta e ciò mi spinse ad approfondire quel lato di me, appena scoperto o riscoperto, che mi stava facendo scoppiare il cuore dalla gioia, tale e tanto fu il sollievo, in me, nell’aver appreso che anche io sono omosessuale. Sì, Sara, a differenza di molte donne che si scoprono lesbiche – non importa a quale età – ricordo di aver provato un alleggerimento enorme, come se la mano del buon Dio che, fino a quel momento, era rimasta poggiata sul mio capo addolorato, si fosse alzata, per rimuovere un enorme tappo da damigiana dal mio cranio e, mentre tutte quelle porcherie stratificate svaporavano e si perdevano nell’etere, per andare a finire chissà dove, io prendevo coscienza di essere diventata ciò che ero destinata ad essere, fin dal mio primo vagito. Dopo di che né Maura né la sottoscritta ebbero più necessità di tornare sulla cosa: lei si rese conto del mio coming out indiretto e me ne fu grata, per la fiducia che io avevo riposto in lei ed io me ne tornai a casa, ad Aversa, con una leggerezza nel cuore che di rado avevo provato sino ad allora.
Hai vissuto dei conflitti dovuti anche all’educazione religiosa ricevuta?
Come ho avuto modo di dire, durante la presentazione milanese del mio libro, la rigida e discriminatoria educazione religiosa che mi venne impartita ed imposta durante l’infanzia, non intaccò le fibre del mio essere, anzi: l’unico conflitto che mi avrebbe accompagnata per alcuni anni, riguardava il seguente quesito: “Davvero io posso riuscire a fare a meno del Cattolicesimo, senza sentirmi in colpa per averlo abbandonato, a sette anni, all’indomani della Prima Comunione?” La risposta non tardò a giungere in me, con un sonoro e perentorio “no”; ciò che l’apprendimento, a spizzichi e bocconi (ero quasi sempre in castigo, per schiamazzi), della cosiddetta Dottrina mi lasciò, insieme ai maltrattamenti subìti sia in oratorio che in confessionale, fu solo un grande vuoto, poiché le sterili nozioni imposte da un prete inumano, che neppure sapeva dove stia di casa la compassione, dalla mia mente erano state rimosse oramai da molto tempo. Ecco perché il mio cammino personale di liberazione poté dispiegarsi in modo del tutto libero, per farmi giungere, infine, attraverso la mia spiritualità, ad essere ciò che ero destinata a diventare.
“Davanti a un bivio si fa fatica a vedere la terza via”, hai detto durante la presentazione. Qual è stata per te la terza via?
La frase da me pronunciata, quel giorno, fa parte integrante della mia esistenza da tanto tempo, sai… Essa ha a che vedere con la visione limitata di ciò che ci circonda e ci accade come quando, di fronte ad un aut-aut (il famigerato bivio cui fai riferimento nella tua domanda), ci sentiamo impotenti, poiché ci è del tutto impossibile prendere una decisione che possa accontentare tutte e tutti; in realtà, come amo dire spesso, è proprio allora che dovremmo fermarci, praticare un poco di sana introspezione ed attendere la risposta tanto agognata: ebbene, nella maggior parte dei casi, la soluzione al nostro problema contingente giungerà da quella inaspettata terza via, che prima non riuscivamo a scorgere, immerse com’eravamo nei nostri ragionamenti cervellotici. Si tratta di un piccolo esercizio mentale, che consiglio a tutte ed a tutti. Funziona davvero. Per quanto mi riguarda, di terze vie, nella mia travagliata vita, ne ho scorte parecchie ed ancora molte ne verranno, ad alleviare il mio dolore di essere vivente; nella fattispecie, la terza via, per me, è stata rappresentata dalla ricerca, del tutto inconscia, almeno sino ad un certo punto della vita, della mia parte spirituale: quando il Guru Yogananda mi è venuto a cercare, bussando piano alle porte della mia anima, era come se recasse in mano un mazzo di chiavi, tenuto insieme da un grande anello; non proferì parola ma, nel consegnarmi quello che io ritenevo essere solo un pesante mucchio di ferraglia, ammiccò e nei suoi miti occhi io potei scorgere la presenza del Divino. Quell’entità astrale mi stava mettendo nelle mani della Divina Madre, per permettere pure ad una bimba smarrita come me di riappropriarsi della sua parte migliore. Da allora non mi sono sentita più sola e sperduta e, guarda caso – ma entrambe sappiamo che di caso non si tratta – è da quel singolo episodio che ha avuto inizio la mia rinascita personale. Era febbraio del 1998: un mese più tardi mi sarei laureata e, solo un anno e qualche mese dopo diventai discepola di quell’Avatar dagli occhi immersi nel Divino. Fu grazie a quell’iniziazione che io potei scoprirmi fiduciosa, colma di speranza, volta al futuro e, malgrado tutto il dolore patito da quel momento in poi, sapevo nel mio intimo che la Sua amorevole presenza non mi avrebbe abbandonata mai. Ecco perché oggi, ogni volta che ricado nei miei stati depressivi, mi aggrappo alla Sua sacra veste color arancia, pur di non perdermi del tutto, immersa come sono in un enorme buco nero, all’interno del quale – senza punto di riferimento alcuno – neppure una piccola luce, seppur fioca, giunge ad alleviare un poco quel buio che agghiaccia il cuore.
Una Chiesa che vive solo per conservare se stessa dove ci porterà?
Se con la particella pronominale “ci” ti riferisci a me e te, beh… Non so tu, ma io mi sono affrancata dall’apparato cattolico da molti decenni, come ho già spiegato ma se, come credo, tu ti riferisci alla nostra società, il discorso cambia e di molto: per provare a darti una risposta degna di questo nome, mi faccio aiutare da uno dei miei punti di riferimento, in merito a temi quali Cattolicesimo, papa Francesco, Vescovi italiani e Sinodo ovvero Franco Barbero, il prete di Pinerolo che venne sospeso a divinis dall’allora papa Woitiła, in concerto con il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger: “L’apertura di papa Bergoglio è indubbia sul terreno politico, contro la produzione delle armi, rispetto alla giustizia e su tutto il fronte della lotta alla povertà e all’emarginazione. Riguardo all’omosessualità, tranne qualche pronunciamento di rispetto, nulla è cambiato. Il recente sinodo ha dimostrato più chiusure che aperture. La teologia, cioè la ‘dottrina’ di questo papa non permette di farsi illusioni rispetto all’omosessualità e alle ‘strutture’ della chiesa, ai dogmi.” Dove ci porterà tutto ciò, Sara? So che è ineducato rispondere ad un quesito con un altra domanda, ma ti prego di scusarmi e ti chiedo: Non trovi tu più scandaloso che il Parlamento italiano, anziché garantire – a norma di legge – pari diritti civili ad ogni suo cittadino e ad ogni sua cittadina, in modo da eliminare evidenti sperequazioni, che fanno apparire il nostro Paese, nel mondo, una piccola Nazione omofoba ed escludente, continui a restare attaccato al carro del Vaticano, in cui risiede il capo della Chiesa Cattolica? Insomma, è vero che l’apparato cattolico in Italia la fa da padrone sui temi più scottanti che esistano ovvero la fine della vita, l’aborto, il divorzio, l’eucaristia alle persone separate, divorziate e risposate, il matrimonio fra persone dello stesso sesso e la conseguente adozione, nonché la fecondazione artificiale o PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), per citare solo i più cari alle crociate vaticane, però è vero anche che la Chiesa di Roma da secoli segue una sua tradizione, che la spinge ad una chiusura quasi totale nei confronti dell’amore, quello di cui è intrisa ogni pagina del Vangelo; se il Suo intento è quello di continuare a macerarsi in tal senso, faccia pure ma, per quanto mi riguarda, è lo Stato italiano – di cui facciamo parte pure tu ed io – con tutte le sue strutture istituzionali, a non mettere in pratica la Costituzione della Repubblica, soprattutto per quel che riguarda i Suoi articoli dedicati al superamento di tutti gli ostacoli sociali, che impediscono alle persone di vivere una vita dignitosa (articolo 1: il diritto al lavoro, articolo 3: eliminazione di qualsiasi discriminazione in merito a sesso, nazionalità, convinzioni religiose o personali e via dicendo ed articolo 29: il matrimonio fra due persone che si amano, senza specificarne il sesso). Ecco, Sara, per concludere: ogni volta che ad essere disattesa è l’applicazione di questi ed altri fondamentali articoli del Dettato Costituzionale, una ferita indelebile viene inferta a tutte le persone che vivono sul suolo italiano e che, per un motivo o per l’altro, si sentono escluse, proprio a causa di una parte importante delle rispettive identità personali. Provassero a colmare almeno una di tali disparità, in Parlamento, mostrando una volontà di apertura che, allo stato attuale delle cose, è del tutto assente nella gran parte delle donne e degli uomini che siedono sulle scranne lignee di Camera e Senato.
Sara Kay