L’amore autentico. Omosessualita’ e fede, due madri raccontano
Intervista a Lidia Borghi Sagone
Link di pubblicazione della prima parte
Qualche mese fa, era ottobre, sono andata alla presentazione di un libro molto intenso: “L’amore autentico. Omosessualità e fede, due madri raccontano” di Lidia Borghi Sagone.
La presentazione, moderata da Gianni Geraci, presidente del circolo Il Guado, e in cui è intervenuta anche Francesca Vecchioni, lesbica e madre di due bimbe, ha visto un pubblico numeroso.
Il libro cerca di rispondere a domande rilevanti per la comprensione della realtà, affettiva e sociale, dell’omosessualità. Cosa succede quando un genitore cristiano scopre che il figlio o la figlia è gay, come si sente e cosa si chiede un genitore dopo questa scoperta? Come vive certi pronunciamenti della Chiesa cattolica e della società su suo figlio? Come influenza il modo di vivere la Chiesa, di leggere la Bibbia e la fede di una madre? L’autrice, giornalista, ha incontrato due madri italiane di figli omosessuali e credenti che hanno scelto di vivere apertamente le proprie identità personali. Il racconto delle esperienze fatto dalle madri con il loro sguardo attento e partecipe alla vita dei figli, offre tutta una serie di riflessioni che, in sintesi, richiamano al diritto di ogni persona di poter vivere l’amore in modo autentico.
Durante la presentazione, sono emersi diversi spunti di riflessione che ho voluto approfondire con Lidia la quale, laureata in storia medievale, giornalista pubblicista, scrittrice, attivista dei diritti umani, ha accettato di raccontarsi in questa bellissima intervista.
Lidia, la genitorialità è il problema fondamentale dei genitori di omosessuali? Ovvero: è più difficile accettare il fatto di non avere nipotini che l’omosessualità del figlio in sé?
Dipende. Da tanti fattori: dai tabù personali dei genitori di persone lesbiche e gay, dai pregiudizi e dagli stereotipi, dal vissuto di madri e padri. Mi spiego meglio: all’interno di diverse famiglie, l’accettazione di avere un figlio gay oppure una figlia lesbica sembra essere il tema chiave, relativo ad una pacifica convivenza entro le mura domestiche; ricordo, per farti un esempio pratico, Ettore, il papà AGeDO che, una volta appreso di avere messo al mondo una creatura gay, le ha tolto il saluto e non le ha parlato per un anno intero. Ti rendi conto, Sara? 365 giorni senza fiatare, senza guardarsi in faccia, senza un gesto d’amore, una carezza. Ci pensi? E tutto questo per mero pregiudizio. Poi, come per magìa, tutto quell’amore, per troppo tempo negato, represso – come un fiume in piena che, costretto per chilometri entro argini troppo stretti, giunto in prossimità della foce, si riappropria di tutto il territorio che gli era stato negato – infine viene lasciato libero di fluire e di sanare ogni ferita inferta all’anima. Tutto cambia e – come ha ben spiegato a Milano Francesca Vecchioni – i genitori divengono i più grandi alleati di figli e figlie; è allora che sorge un’altra questione da risolvere: “Cielo! Non diventerò mai nonna/o!” Sì, perché la mentalità corrente, ahimè rafforzata dalla gran parte dei media nazionali e dalla malafede di molti ambienti, anche cattolici, considera le persone lesbiche e gay sterili, in quanto fanno sesso tra di loro; non c’è convinzione più assurda! Da che mondo è mondo la prole è stata generata nei modi più disparati e, nel caso delle lesbiche, spesso senza il ricorso all’inseminazione artificiale – all’estero, per chi se lo può permettere – ma con un semplice quanto efficace fai da te. Secondo me sta all’intelligenza delle persone dirette interessate far capire, con amore e tanta pazienza, ai propri genitori che, ebbene sì, la possibilità di diventare nonni non è remota come essi pensano.
Qualcuno durante la presentazione, credo Francesca Vecchioni, ma correggimi se sbaglio, ha affermato: “Le persone meno colte fanno quasi meno fatica ad accettare il fatto che un figlio gay desideri avere figli”. Sei d’accordo?
Sei nel giusto. Vecchioni, in quel contesto, fece riferimento al fatto che, molto più spesso di quanto non si creda, sono le persone acculturate a far più fatica ad uscire dal pregiudizio, al fine di cominciare a ragionare con la propria testa; pur se il “quasi” che hai messo nel testo della tua domanda è d’obbligo, per la mia esperienza personale trovo ben più di un riscontro a tutto ciò. Mi sono domandata spesso – come hai fatto tu – il motivo di questo scalino, che sembra insormontabile e, nel tentativo di trovare una spiegazione culturale – perché è proprio di cultura che si tratta – sono giunta alla conclusione, a mio avviso alquanto desolante, che a farla da padrone sia, nella fattispecie, l’impiego più o meno voluto dell’onestà intellettuale, da parte di persone che, in quanto acculturate a livelli superiori, dovrebbero quantomeno mettere in pratica la cautela, quando si rivolgono a persone lesbiche, gay e transessuali che, per la società umana mondiale, sono lasciate ai margini della stessa; verrebbe da esclamare: “perché?!” Ecco, sì, appunto, Sara, perché? Perché risulta più facile emarginare l’altra/o da noi che ci provoca disgusto e, infine, voltarsi dall’altra parte? Perché la scappatoia della discriminazione finisce per porre molte e molti nella condizione di dividere il mondo in buone/i e cattive/i? Perché è più facile innalzare muri, che costruire ponti di comprensione compassionevole? Io credo che l’uso dell’onestà intellettuale, per tutte e tutti noi, sia legato a doppia mandata alla compassione – nel senso stretto del termine – alla comprensione (cum-prendere = prendere con sé) ed alla pietà nel significato latino del termine ovvero il rapporto affettuoso che univa le persone. La Pietas degli antichi Romani era anche una divinità, il cui simbolo è la cicogna; l’immagine emblematica ad essa legata è quella di Enea che porta il padre sulle spalle, per salvarlo dall’incendio di Troia e simboleggia i rapporti d’affetto per eccellenza, da cui il concetto di pietas mutua. Ecco, Sara, senza voler scomodare a tutti i costi il Cristianesimo, con il suo dirompente e rivoluzionario messaggio d’amore, giunto in Occidente attraverso le parole del Cristo, lasciami sognare un mondo migliore e migliorato, in cui sempre più persone di cultura alta mettano in pratica, insieme all’onestà intellettuale, quell’affetto che farebbe capire, in un solo momento, alle persone discriminate, di non essere sole del tutto, lungo il loro cammino di dolore causato dall’emarginazione, poiché quegli individui hanno infine scelto di prendere sulle loro spalle una parte di quel pesante fardello.
Tornando al tuo libro, come può la fede aiutare l’accettazione? “Prima ancora della legge, c’è il Vangelo” hai detto durante la presentazione…
La fede in quanto tale non sempre aiuta le persone ad accogliere l’altra/o da sé; dipende: se per fede intendiamo quel moto spontaneo del cuore e dell’anima, che fa sì che milioni di persone nel mondo sentano dentro di sé la vocazione (ricordo che non è indispensabile diventare preti o suore, per seguire la chiamata di Dio), trovo alquanto difficile credere che esse non siano accoglienti – in modo del tutto indipendente dal credo religioso abbracciato – ma, se per fede intendiamo l’insieme di precetti e disposizioni, che una qualunque corrente di culto pretende di imporre alle persone fedeli, pur di mantenere intatto il suo potere di controllo delle masse, il discorso cambia e di molto. Nel secondo caso, non ravviso spazio alcuno per l’accoglienza, anzi. Ciò detto, le persone cristiane, discepole di Gesù, hanno in mano un mezzo dirompente, per conformare le proprie vite a quella chiamata totalizzante: il Vangelo ovvero il testo più rivoluzionario che sia mai stato scritto da essere umano su questa Terra; in esso il filo conduttore è l’amore. Inutile scrivere il termine con l’iniziale maiuscola, perché il concetto non cambia. È l’amore a cambiare l’esistenza delle persone che ad esso scelgono di abbandonarsi in toto. È l’amore che ci rende rivoluzionarie/i ed è sempre l’amore che ci fa fare passi da gigante, al fine di diventare ciò che siamo destinate/i ad essere, secondo la volontà del Cosmo. Questi concetti sono tanto semplici quanto incontenibili ed hanno il potere di inchiodare le donne e gli uomini di qualsiasi latitudine alle proprie responsabilità di esseri umani; fra essi mi piace ricordare l’amor proprio, la compassione, il rispetto, la volontà ferma di pensare il bene, di dire il bene e di fare il bene. Ecco perché trovo quantomeno assurdo che larghe fasce della Chiesa Cattolica continuino ad evitare di mettere in pratica il comandamento dell’amore, divulgato nel Vangelo.
Come si può riscoprire la fede senza la fede cattolica? Hai detto che il tuo è stato un risveglio spirituale e non religioso…
E lo ribadisco. La religione in quanto tale non mi interessava da tempo immemorabile, quando avvertii dentro di me la chiamata: nessuno dei preti che, nella mia pur breve vita di bimba, avevano incrociato il mio cammino, era riuscito a trasmettermi l’amore di Gesù; ciò vorrà pur dire qualcosa. Ero stata a tal punto discriminata, tra il confessionale e l’oratorio, nei cui locali si tenevano le lezioni di Catechismo che, giunta al momento della Prima Comunione, ero come drogata di dolore, incapace di avvertire Gesù nella mia anima, terrorizzata da un gruppetto di maschi intonacati, che non perdevano occasione per puntarmi il dito contro, pur di farmi sentire sporca e incapace di stare al mondo. Avevo sette anni ed ero una scolara intimidita dalla violenza verbale altrui; da allora mi fu davvero difficile riprendermi. Vissi gli anni successivi a quell’incancellabile trauma come in trance o, se vuoi, come un automa, cui si danno ordini da eseguire. Di certo non stavo bene nella mia pelle. Quella sgradevole sensazione di inadeguatezza mi accompagnò sino all’età adulta, rendendomi pesante e colma di paura qualsiasi azione che aveva lo scopo di rendermi felice. Era come se un meccanismo si fosse inceppato in me. Avevo 32 anni, quando scoprii la mia parte spirituale: una delle prime cose cui ricordo di aver pensato, in quei momenti di rinascita, fu che quel Dio o quella Dea che avevo preteso di rimuovere dalla mia anima e dalla mia mente, non se n’era mai andata e, anzi, ero stata io ad allontanarmene, ritenendo di essere atea; quel che mi apparve infine chiaro fu che – lungi dall’esserlo – avevo il desiderio di un linguaggio nuovo, semplice e diretto, che fosse in grado di spiegarmi che in me nulla vi era di sbagliato e che quell’amore divino che avevo preteso di negarmi, era a portata di mano e, per di più, era sempre stato dentro di me. Avevo solo bisogno di una leva, che mi ponesse nella condizione di farlo riemergere dalle pesanti coltri di quel mio dolore stratificato. A riuscirci furono le parole meravigliose di un Maestro spirituale noto in tutto il mondo, Paramahansa Yogananda. Ne divenni discepola e, da allora, non l’ho lasciato. È grazie a lui se sono riuscita a rivoluzionare la mia esistenza. È a causa sua se, oggi, posso dire di aver ritrovato intatta, in me, la mia identità personale, di cui l’essere lesbica è solo la minima parte. Sì, Sara, io sono la prova vivente che senza la Chiesa Cattolica si può vivere e, come me, milioni di persone in tutto il mondo.
Mi hai fatto sorridere quando hai detto “Quante volte Gesù parla di omosessualità? Quante volte Gesù parla di omofobia?”, eppure in tanti si fanno portavoce di qualcosa che Gesù non ha mai detto. Perché?
E già, perché? Forse per quella dimostrazione di potere cui ho accennato sopra? Certo, troveremo sempre persone che, anche con una certa violenza verbale, non esiteranno a dire: “È vero, Gesù non ha parlato dell’omosessualità! Perché mai avrebbe dovuto toccare un argomento tanto scabroso? Non c’è nulla da dire, per il semplice fatto che è un comportamento contro natura!” E, per quanto mi riguarda, non facciamo altro che ritornare al concetto di onestà intellettuale; ebbene, in quelle parole, per nulla accoglienti, non ne ravviso neppure un grammo.
Nel tuo libro parli di comunismo e cattolicesimo. Vicini o distanti?
Più vicini di quanto io stessa potessi pensare, almeno prima di aver conosciuto Mila Banchi, una delle due madri da me intervistate nel mio libro L’amore autentico: la sua testimonianza, preziosissima a prescindere, ha rappresentato per me un insegnamento esemplare, in merito all’unione della fede in Dio con un movimento politico, che avrebbe ancora tanto da dare alle persone, in termini di accoglienza, rispetto e compassione, se solo si abbandonassero per strada i tanti pregiudizi ad esso collegati; non sono forse proprio l’accoglienza, il rispetto e la compassione tre punti fermi della fede in quanto amore per se stesse/i e per il prossimo? Sai, Sara, Mila crebbe cattolica e comunista, a contatto con un’ava dalla forza amorosa davvero notevole, come lei stessa ha ricordato nel mio libro; stiamo parlando di un’antica popolana livornese che annoverava tra i suoi più cari amici un ragazzo omosessuale: mai una parola fuori posto uscì dalla sua bocca, come quando, Mila piccina, ricevette dalla bimba la fatidica domanda: “Perché *** non ha accanto a sé una ragazza?”. La risposta può essere letta per intero all’interno del testo in questione.
Geraci durante la presentazione ha detto: “Questa è la testimonianza di felicità: o siamo sinceri con noi stessi o non saremo mai felici”. Quanto ci hai messo ad essere sincera con te stessa?
Anni ed anni di duro lavoro su di me e non ho ancora finito: questa attività, che è collegata in modo strettissimo alla spiritualità, una volta iniziata dura per l’intera esistenza. La mia prima psicoterapia, durata all’incirca tre anni, mi ha consentito di porre le basi per cominciare a far riemergere la parte migliore di me, sepolta sotto chili e chili di pregiudizi stratificatisi con il tempo, nonché di errate convinzioni in merito alla mia bassa autostima; e non è un caso come, proprio a ridosso del termine di quella serie di sedute, io abbia riscoperto la mia parte spirituale. Il passo successivo è consistito nel cominciare a mettere in pratica alcune semplici quanto efficaci tecniche di interiorizzazione, con lo scopo di immergermi nel silenzio della mia mente. Ebbene, l’ascolto di quell’assenza di suoni è arricchente ed ha un altissimo potere di guarigione. Credo sia stato il Dalai Lama ad affermare che: “Se ad ogni bambino di otto anni insegnassero a praticare la meditazione, la violenza nel mondo sparirebbe in una sola generazione”. La parte violenta del genere umano è causa di tutti i nostri problemi, con noi stesse/i e con chi è altra/o da noi: da essa nascono solo guai e, quando una persona è immersa nei guai, crede di non aver diritto alla speranza di una vita felice.
Parliamo del male oscuro, la depressione. Se ne parla sempre troppo poco. È stata causata anche dal tuo non riuscire ad essere te stessa?
Hai centrato il punto, pur se io toglierei l’avverbio “anche”. Fin dalla fanciullezza – ed ho scoperto ciò solo andando a ritroso nel tempo, mentre analizzavo interi periodi della mia vita, alla ricerca di tutti i segnali, assai vistosi, del mio lesbismo – ho sempre avuto una certa tendenza a quella che i nostri Antenati latini chiamavano melancholia o umore nero ovvero quello stato, che nessun* vorrebbe provare mai, caratterizzato da una certa dose di tristezza, cui si accompagna l’impotenza e, non di rado, la perdita della speranza, a seguito di uno o più eventi scatenanti protratti nel tempo che, se non riconosciuti con tempestività, possono sfociare in stati depressivi più o meno profondi. Come ho avuto modo di affermare – mentre lavoravo ad un progetto pilota sul lesbismo che ha da poco visto la luce (Lidia Borghi, Paola Guazzo, Manuela Menolascina, Michela Pagarini, “A testa altra. Quattro lesbiche liberate testimoniano il loro percorso di emancipazione dal maschilismo e dallo stigma sociale”, Greenbooks Editore, Roma, 2014, ndr) – durante l’infanzia “Il meccanismo della felicità (…) in me si era inceppato. Nessuno, a casa come a scuola, riusciva a capacitarsi di come che io potessi essere spenta, demotivata, al limite della depressione.” Il motivo di tutto ciò va ricercato nel fatto che, durante i primi anni della mia vita, non ho ricevuto quell’amore autentico e gratuito che tutte le bambine e tutti i bambini dovrebbero avere, dalle persone che dicono di voler loro bene. Ero circondata da parenti che non perdevano occasione per farmi notare quanto io fossi sbagliata; ci fu addirittura qualcuno che si permise di esclamare, durante un rimprovero rivolto alla mia persona: “Tu non sei capace di stare al mondo!” Beh, se consideri che avevo sei anni, sfido io che non ne fossi in grado… Così quella sottile forma di discriminazione finì per provocare nella mia anima un solco che, durante gli anni successivi, i miei rapporti con la società fecero diventare sempre più profondo. Mi apparve del tutto chiaro, dalla prima elementare in poi, che il mio modo di essere, stare al mondo – in una parola la mia identità di persona – proprio non si addiceva ad un essere umano del mio tipo ed era, anzi, inopportuno, scorretto e, per di più, degno di biasimo poiché si sa, oggi, con assoluta certezza che il fatto di essere mancina, esuberante, ridanciana, astemia, altruista, generosa, amorevole e compassionevole (fra tante altre caratteristiche mie) ovvero me stessa, non è positivo. Così, finii per trascorrere il primo quarto abbondante della mia vita a colpevolizzarmi per essere ciò che sono ed il secondo quarto a porre rimedio, a partire dalla mia ritrovata spiritualità, a quel guasto, che trasse la sua origine in famiglia, anche se fu la società a darmi il colpo di grazia.
Fine prima parte
Sara Kay