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La figura della Tarantina narrata con la sensibilità di una grande documentarista italiana

Intervista a Gabriella Romano


di Lidia Borghi


Introduzione

Gabriella Romano è una scrittrice, regista e documentarista italiana dotata di grande sensibilità. Nata a Torino nel 1960, si è formata a Londra negli anni ’80, dando vita a diverse video-storie che affrontano il tema dell’omosessualità femminile. Al suo ritorno in Italia ha cominciato ad alternare la sua attività principale a quella di saggista e narratrice, producendo spaccati di vita lesbica e gay assai efficaci (due fra tutti “L’altroieri” del 2002 e “Ricordare” del 2003). Nel 2009 la casa editrice Donzelli ha pubblicato il suo “Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale” mentre, durante l’estate del 2013, grazie ad Ombre corte, Romano ha potuto dare alle stampe “La Tarantina e la sua ‘dolce vita’. Racconto autobiografico di un femminiello napoletano”, in cui ripercorre le tappe principali della vicenda umana di una tra le più note transgender che frequentarono i caffè di Via Veneto dal secondo dopoguerra in poi. Non c’è dubbio, la penna di Gabriella Romano è riuscita ad offrirci una narrazione profonda ed approfondita, accurata e dettagliata, grazie alla quale è riuscita a porre sotto la lente d’ingrandimento un periodo storico tra i più proficui, a livello culturale, del nostro Paese; in questo modo, gli anni d’oro del Neorealismo e di Pasolini, di Rossellini e di De Sica, di Magnani e di Mastroianni ci vengono riproposti con lo sguardo disincantato e coraggioso di una persona che conobbe la disperazione più nera ma che, nonostante ciò, mai smise di cercare la sua felicità.



Come hai incontrato La Tarantina?


La Tarantina mi è stata presentata da un amico napoletano, Ivano Schiavi. Lei in realtà aveva già deciso di raccontare la sua storia e di tramandarla, Ivano mi conosceva anche grazie alla lettura del mio libro su Lucy (Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale. Donzelli, Roma 2009) e quindi ha fatto da tramite tra me e lei. In un certo senso è stato un “incontro combinato”.


In che modo le storie di Lucy e della Tarantina sono simili, in che modo sono diverse?


Alcune esperienze fondamentali sono identiche: penso al rifiuto drastico da parte della famiglia di origine, all’ostracismo sociale, al vivere sempre ai margini. Però le loro due esistenze per molti versi sono state diametralmente opposte: Lucy, per cominciare, ha un vivido ricordo del fascismo, perché in quegli anni era giovane e si affacciava alla vita, agli affetti e al sesso. La Tarantina è più giovane, il fascismo per lei è un vago ricordo di quando era ancora un bambino. Lucy poi ha vissuto l’internamento a Dachau, un’esperienza traumatica che l’ha segnata profondamente e che alla Tarantina è sconosciuta. Ma direi che un elemento di differenza tra questi due straordinari personaggi è come hanno vissuto dal dopoguerra in poi: Lucy si è abbastanza isolata, ha mantenuto i contatti con alcuni amici di vecchia data, ha avuto alcune relazioni sentimentali importanti, ma la sua vita sociale è stata piuttosto circoscritta. Non si è avvicinata a gruppi e associazioni di attivisti GLBTQ, non ha partecipato attivamente alla vita delle associazioni di ex-deportati, non ha avuto un impegno politico vero e proprio. Si è identificata come donna, ha subìto l’intervento di riassegnazione di genere e quindi, in un certo modo, ha voluto uscire dalla comunità GLBT per prenderne le distanze. Inoltre, non aveva mai raccontato la sua storia per intero a nessuno prima che io la incontrassi e infatti il percorso di ricostruzione del suo passato è stato lungo, a volte faticoso, ed è avvenuto sotto lo stimolo della conversazione con me: in un certo senso direi quindi che il raccontarsi ha coinciso con un uscire dal bozzolo, entrando in contatto con il mondo. La Tarantina invece è sempre stata parte integrante della comunità dei femminielli napoletani, di cui è oggi un personaggio tra i più conosciuti e rispettati, fa cioè parte di un gruppo socialmente ben individuabile, ha contatti sociali estesissimi. Anche per questo aveva pensato di riordinare le memorie della sua vita e di raccontarle in maniera autonoma e precedente al nostro incontro: lei si era già ampiamente raccontata ai suoi vicini di casa, agli amici, non era chiusa in se stessa come Lucy, anzi, la Tarantina si sa collocare in un contesto storico e sociale proprio grazie alla sua integrazione, al suo interagire con il mondo GLBTQ. Vede molto chiaramente le differenze tra i femminielli delle varie generazioni più giovani di lei, coglie le sfumature che solo chi è parte di un gruppo/comunità può cogliere.

Un aspetto che accomuna entrambe è invece la straordinaria tenacia. Lo dico a costo di cadere nel banale, ma è la verità: i gay, le lesbiche e le trans della generazione di Lucy e della Tarantina hanno dovuto lottare tutta la loro vita in un sforzo che ha richiesto una caparbietà e una determinazione di cui cominciamo solo ora a renderci conto.


Quale posizione hanno riguardo all’operazione di riassegnazione di genere?


Entrambe sono decisamente contrarie. Lucy ha deciso di farla dopo molti tentennamenti e se n’è pentita, la Tarantina non ha mai voluto sottoporsi all’intervento, anche perché i femminielli si considerano un po’ un terzo sesso, tradizionalmente, e quindi per loro la questione dell’operazione non è così centrale, almeno per quelli della generazione in questione. Le cose cambiano molto per chi è più giovane. C’è da sottolineare però che entrambe le intervistate hanno visto la chirurgia ai suoi primi passi, quindi ne danno una valutazione sulla base di quanto succedeva qualche annetto fa e le cose, in questo campo, sono migliorate molto in fretta.


Parliamo della “dolce vita” a cui il titolo del libro fa riferimento.


La Tarantina da giovane ha avuto la fortuna di vivere a Roma proprio negli anni favolosi e mitici della “dolce vita”: un’esperienza inebriante, un periodo in cui ha conosciuto molti grandi nomi del cinema e della cultura italiana, da Pier Paolo Pasolini a Goffredo Parise, da Federico Fellini a Novella Parigini, da Brigitte Bardot a Anita Ekberg. Ha frequentato i locali mondani, ha fatto la passerella elegante di via Veneto, è stata ospite a molte feste, ha preso parte alla frenesia gioiosa e trasgressiva di quegli anni. Ma è anche stata arrestata molto spesso, sia a Roma che, più tardi, a Napoli. Non dimentichiamo che nell’Italia moralista dell’epoca le transessuali erano letteralmente perseguitate dalla polizia, bastava il travestimento per finire in cella. Anzi, vorrei concludere sottolineando il fatto che secondo me la forza del racconto della Tarantina è proprio quella di voler svelare tutto, gli aspetti positivi e mondani della sua vita, ma anche le delusioni, le difficoltà, la prigione, la fame e la disperazione. Secondo me è questo suo mettersi in gioco che rende il racconto davvero avvincente, vero, perché questa è una storia sofferta, non è solo il resoconto stucchevole di una protagonista della mondanità: qui c’è molto di più. Ed è proprio leggendo le pagine più scure dei suoi ricordi che possiamo capire, ma forse soprattutto imparare, la sua forza nel guardare avanti.

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