“Il tuo sguardo su di me” di Margherita Giacobino. Una recensione
Piemontese, traduttrice, saggista e scrittrice, prima di pubblicare “Il tuo sguardo su di me”, il romanzo dedicato alla madre, Margherita Giacobino aveva scritto un libro sulla sua famiglia uscito nel 2015, “Ritratto di famiglia con bambina grassa”.
Come il precedente, pure questo è scritto in prima persona in una prosa essenziale che lo rende efficace anche grazie alle frequenti, incisive metafore.
“Il tuo sguardo su di me” è un monologo al centro del quale è la madre Maria Grazia, di cui Giacobino fa un ritratto nitido come i quadri di De Chirico, in cui il dispiegarsi dei ricordi diventa vincolo indivisibile fra persone e cose, vicende e legami.
La scrittura dell’autrice è schietta e concisa, una rasoiata alla tela della vita, pochissimi dialoghi, basta un soffio per dire di un dolore, una gioia, un movimento del corpo e si finisce per averla lì davanti, quella madre che cresce Margherita insieme alle vice madri, le magne, come si dice nel dialetto piemontese di quella parte là della provincia di Torino.
“Per scrivere di qualcuno bisogna volergli bene.” ha detto Margherita Giacobino in un’intervista che le ho fatto nel 2017 su Tempi di fraternità: si parlava della scrittrice Patricia Highsmith e della descrizione che l’autrice ne ha fatto nel libro “Il prezzo del Sogno” ed è la stessa cosa che è accaduta con la donna che l’ha messa al mondo, dal mondo l’ha protetta e nel mondo l’ha lasciata andare con lucido pragmatismo.
Così Giacobino descrive la madre: “Sei vasta, luminosa e calma, sei il sole che arrossa le ciliege e matura il grano nel giorno più lungo dell’anno.” Il loro è un rapporto non solo d’amore, ma anche di grande considerazione reciproca, nel quale madre e figlia si sono parlate, ascoltate, amate in modo profondo, ma anche trascurate.
Il tempo dell’adolescenza rappresenta lo spartiacque fra la madre coraggiosa e determinata e la figlia scostante, riservata e studente capace che usa un linguaggio affilato, la sua autodifesa dagli atteggiamenti di superiorità di compagne e compagni liceali: “Mi alleno a tirare di scherma con battute veloci e risposte taglienti, trionfo interiormente quando sfregio con l’ironia le guance brufolose dei compagni o incido un marchio di sarcasmo sulle sopracciglia depilate delle compagne.”
Quando inizia l’università Margherita si allontana dalla madre, pensa al suo futuro, un muro finisce per separle, si chiede se sia proprio lei, Maria Grazia, ad averla messa al mondo; è in quel periodo che l’autrice vive “desideri struggimenti e terrori che mai, mai potrei, né vorrei, confessarti.”
Sua madre è una divoratrice di libri, ha il vizio della lettura; un giorno Margherita le poggia sul comò “Thérèse e Isabelle” di Violette Leduc, uno dei più disinibiti romanzi di letteratura lesbica e il giorno dopo la donna la guarda con diffidenza, poi con poche parole, le dice: “Non lo capisco […] troppo difficile per me.”
Un giorno Margherita, emozionata e nervosa, porta a casa la sua donna e gliela presenta: Maria Grazia porge a entrambe uno sguardo attento, non vuole rovinare tutto con parole fuori luogo, è accogliente, sorride. Federica è una lesbica velata, in famiglia nessuno sa che ama una donna, si è perfezionata “nell’arte del bluff”, invece Giacobino vive in un altro mondo, si è liberata dal fardello della confessione, anche se finge di fronte alla madre della compagna. Insana lesbofobia interiorizzata. Nessuna ribellione.
Infine il ruolo madre/figlia diventa il ruolo figlia/madre: Maria si ammala e Margherita comincia a prendersi cura di lei, come può. La vede spegnersi giorno dopo giorno quella sua matriarca fra le matriarche, che ha lavorato per decenni con fatica, lei, la prima donna a recarsi ogni mattina col suo furgoncino ai mercati generali, un ambiente di soli uomini, in un mondo a misura d’uomo, per rifornire il negozio di frutta e verdura.
Durante gli ultimi giorni Margherita vede il corpo della madre trasformarsi nell’involucro privo di mente “di una donna smemorata che non era più te.”