Il ritorno de La bocca del lupo
Ho incontrato Enzo Motta durante un afoso pomeriggio di inizio Giugno a Genova. La sera precedente, insieme a Laura, la mia compagna, ho avuto l’onore di conoscere il protagonista de La bocca del lupo nella piazza dei truogoli di Santa Brigida, uno dei luoghi del Centro Storico di Genova che di recente sono stati riportati all’antico splendore dopo un lungo restauro.
Sono passati pochi mesi dall’uscita del film di Pietro Marcello nelle sale italiane e i premi ottenuti da questo documentario, nel frattempo, sono saliti a circa trenta, fra cui il prestigioso David di Donatello.
Uno dei più grandi meriti di questa pellicola è quello di aver fatto uscire allo scoperto due persone che vivono da sempre ai margini della società e di averne raccontato l’umanità lacerata attraverso immagini crude che si fanno pennellate grezze sulla tavolozza del tempo.
Il regista è riuscito, infatti, a fissare certe figure che, da quando ho l’età della ragione, mi porto dentro in modo indelebile. Erano gli anni ’70 e, alle volte, con la manina di bimba stretta in quella tanto più grande di mio padre, mi trovavo a percorrere quelle zone semi nascoste dei vicoli genovesi che erano percorse ogni giorno dalla stessa umanità allo sbando che compare nel film.
C’era anche il padre di Enzo, Salvatore, quel tipo mingherlino dalla voce roca che faceva l’ambulante tra via Pre e piazza dello Statuto ed invitava i passanti a comperare accendini e sigarette. Suo figlio, all’epoca, era un adolescente che “portava” in giro le sigarette. Di lì a poco sarebbe finito in carcere per avere ammazzato un poliziotto. Era minorenne ed ottenne le attenuanti del caso. Altri vent’anni li scontò per aver sparato ad un altro tutore dell’ordine.
Ci sediamo di fronte alla mia inseparabile videocamera e Laura comincia a riprenderlo. Tiro fuori il mio blocco per gli appunti dalla copertina nera e lui mi dice divertito: «Hai il quaderno come quello di Pietro Marcello! Nero come quello dei preti, il breviario. Quando volevo farlo incazzare glielo dicevo. Lo tirava sempre fuori per prendere appunti. Pure quando lo chiamava qualche regista, come Gianni Amelio o Giuliano Montaldo.»
È lui ad iniziare il discorso dei due conflitti a fuoco: «Un poliziotto me lo sono “fumato” – dice -. Tre pallottole nella pancia… Io nelle gambe ne ho ancora quattro. E questa è la legge?! Ma la legge me la faccio io! Quando “portavo” le sigarette, io lo sapevo che cosa avevo con me e non erano certo sigarette…»
Gli chiedo com’è cambiata la sua vita dopo il successo del film e la sua risposta è inequivocabile: «Niente. “La bocca del lupo” è il mio film, quello che parla di me. Enzo Motta, però, non è cambiato. Faccio la vita di sempre e frequento i miei amici, al bar; gioco con loro a carte, a biliardo. Ad essere cambiata è Genova. Non è più quella del documentario. L’unico film italiano ad aver vinto dei premi, quest’anno, è stato il mio, ma Enzo non cambierà mai. Enzo è nato Enzo e morirà Enzo. Chi cambia dopo un evento del genere non è né più donna né più uomo. Io, quelli, li chiamo “quaquaraquà”. O nasci uomo e vivi da uomo oppure… Non come quelli che pigliano un po’ di soldi e poi… (fa un gesto ironico di saluto) Ti pare?»
Gli chiedo poi di Gianni Amelio e lui riprende a parlare: «L’ho conosciuto a Torino, durante le premiazioni. Quando arrivai là, ricordo che c’era gente famosa come Robert De Niro, Richard Gere, Francis Ford Coppola e tanti altri e, quando hanno annunciato la vittoria del “mio” film, non mi è sembrato vero! Ti rendi conto? In tanti anni il primo film in assoluto ad aver vinto è italiano ed è stato girato a Genova! Io tremavo come una foglia… I Genovesi sai come mi portano a me?! – fa un gesto inequivocabile, che significa “in palmo di mano” –. Tutti, tranne che Marta… (Marta Vincenzi, la sindaca di Genova n. d. a.) Quando il film è uscito – un film che parla di Genova – ti rendi conto, lei lo ha fatto proiettare in una sala da 200 posti (il cinema Sivori, n. d. a.). Poi, siccome la gente rimaneva fuori – troppa gente – lo hanno spostato ai Magazzini del Cotone, al Porto Antico. Dopo di che è stato presentato in altre piccole sale. Quindi lo hanno dato in altri paesini ed ogni volta sono stato contattato per recarmi in quei cinema. Lo sai il perché? Io voglio stare insieme al mio pubblico. Questa cosa mica la fanno De Niro, Gere o Coppola. Io lo faccio perché sono restato una persona umile. Enzo è una persona umile e sai che significa essere umili? (si tocca il centro del petto) Il cuore… Quando uno è bello dentro lo è da tutte le parti. Mi volevano dare la scorta. Gli ho risposto che la scorta ce l’anno le macchine. La ruota di scorta! Io vivo come uno zingaro e tutti mi vogliono bene. E questa è la cosa più importante di tutte».
Enzo ha un sogno, quello di dirigere da solo la continuazione de La bocca del lupo. È in cerca di un pezzo grosso che lo finanzi ed ha già contattato Gianni Amelio, il quale gli ha dato il suo benestare, anche se di contratto per ora non se ne parla: «Non voglio lui come regista. Lo voglio fare io. Gianni Amelio mi ha detto di sì ma, se non vedo il contratto, raduno un po’ di amici e il film me lo faccio da solo. Ho spaccato Torino? E con questo spacco Venezia!»
Il “baffo”, come lo chiamano tutti i suoi amici, è una forza della natura e non si ferma di fronte a niente. Non ha nulla da perdere. Ha scontato per intero la sua pena, trent’anni di carcere, durante i quali ha conosciuto la persona che ama, Mary. Gli chiedo come sta la sua signora, dal momento che di recente è stata ricoverata in ospedale: «Vive attaccata all’ossigeno ventiquattro ore su ventiquattro. Ha rivisto il nipote dopo una ventina d’anni… Ieri sera si è vista i fuochi d’artificio dalla finestra di casa. C’era l’inaugurazione del sottomarino, il Nazario Sauro, che sta proprio di fronte al nostro appartamento».
Poi gli domando della casetta di campagna sulle alture di Genova, quella di cui si parla nel film di Pietro Marcello. Gli chiedo se esiste sempre. Lui mi risponde: «Certo! E voglio andare a viverci. Con Mary, che è stata una compagna meravigliosa. Sono vent’anni… Anche se da nove anni non c’è più sesso; ma guai a chi me la tocca! Chi tocca Mary, tocca la mia vita e chi tocca la mia vita, è un uomo morto… Ecco perché ti dico che la legge me la faccio io. Dopo Gesù… Se non mi dà il fiato Lui per respirare, come faccio a farmi la legge?!»
Mary Monaco è la donna per la quale, in carcere, Enzo si è battuto e di cui si è innamorato. Lei pure e lo ha atteso con pazienza durante i restanti anni che ci sono voluti perché l’uomo finisse di scontare la sua pena. All’epoca Mary era rinchiusa nella sezione riservata ai detenuti transessuali, lei che era stata arrestata per detenzione e uso di sostanze stupefacenti. Quell’amore nato dietro le sbarre resiste all’avanzare del tempo e della malattia, che costringe la donna a mettere di rado piede fuori di casa. Ci rechiamo sotto le finestre della sua abitazione e lei, chiamata dal “baffo”, si stacca per pochi secondi dalla bombola di ossigeno per fare capolino su via Pre, giusto il tempo per salutarci in modo garbato e per rispondere al bacio che le lancio da sotto. Dopo di che scompare fra i vasi.
Quando torniamo a Santa Brigida, chiedo ad Enzo come ha deciso di impostare il secondo film, nella speranza che riesca a girarlo, viste le innumerevoli difficoltà: «Ci saranno particolari più pesanti: il sequestro di persona, l’omicidio e poi non comparirà mio padre, come nel primo. Si parlerà molto della mia infanzia. Quattordici anni della mia vita, quella di me da ragazzino».
Poco prima di salire a piedi al Carmine, una delle più belle ed antiche zone di Genova, a ridosso del Centro Storico, gli faccio un’ultima domanda, che riguarda il messaggio che vuole lanciare con la seconda pellicola: «Lo voglio dare ai Genovesi, perché nel primo film ho fatto vedere via Pre com’era quarant’anni fa, mentre qui voglio far comparire pure il Righi, via San Vincenzo e via “Venti” (via XX Settembre, n. d. a.). Voglio far capire soprattutto ai ricchi che esiste pure il Centro Storico. Questa piazza (dei truogoli di Santa Brigida, n. d. a.) solo due anni fa faceva schifo ed era piena di siringhe e di drogati, ora, invece, guarda com’è bella. Be’, quei ricchi Genovesi si sono fatti rubare la parte più bella di Genova e del mondo, quella dei vicoli. Perché pensate solo ai soldi? Questa zona della città è vostra, non mia! Io sono Siciliano… E dopo quarant’anni non riconosco più il posto in cui sono cresciuto. Dove sono tutti i negozi che c’erano allora? E quella gente?! I Genovesi devono riprendersi il Centro Storico! Cacciate via i “Mao Mao” (gli extracomunitari, n. d. a.), rimandateli al loro Paese!»
Dopo lo sfogo, ha inizio la seconda parte di questa avventura di un pomeriggio trascorso con Enzo Motta. Continuo a riprenderne le parole e i movimenti mentre saliamo al Carmine. Lì incontreremo le amiche e gli amici di Enzo, per lo più esercenti o persone che frequentano i vari bar del circondario. Ogni incontro un abbraccio e, spesso, una bevuta. Dove passa il “baffo” un bicchiere di vino è assicurato e di pagare non se ne parla proprio. Questa è amicizia. Entriamo in un circolo in cui gioca spesso a biliardo ed Enzo riesce a trovare un amico disposto a farsi riprendere con lui durante una partita a “boccette”. La mia videocamera continua a riprenderlo mentre camminiamo per queste vie che sanno di antico, mentre parla con amici o semplici conoscenti, un passo dopo l’altro. Procede spesso a fatica. I proiettili conficcati nelle gambe si fanno sentire, insieme a qualche bicchiere di troppo.
Il pomeriggio lascia spazio ad una sera calda sotto un cielo velato foriero di pioggia. Laura ed io accompagniamo Enzo fin sotto casa e ci accomiatiamo da lui con una promessa: quando uscirà l’articolo gli faremo avere una copia della rivista. Ora che tutti parlano di Enzo Motta non dovrebbe essere poi tanto difficile trovare uno sponsor per “il ritorno della bocca del lupo”. L’appello è lanciato. Staremo a vedere. Lasciamo l’uomo e, mentre ci incamminiamo verso casa, mi tornano alla mente le sue parole di poco prima: «Ricordati una cosa: chi incontra Enzo Motta arriva in alto». Lui c’è arrivato. E poco importa se ci sono voluti trent’anni di galera.