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Il Concilio Vaticano II. “La buona notizia più importante del mio giornalismo”


Alla fine di agosto 2012 ho contattato il giornalista Raniero La Valle per un breve colloquio telefonico in vista del convegno romano del 15 settembre dal titolo “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”, voluto ed organizzato da diverse realtà associative cristiane nazionali per fare il punto sugli esiti del Concilio Vaticano II, di cui quest’anno cade il cinquantesimo anniversario dell’inizio dei lavori. Classe 1931, Intellettuale e politico cristiano di sinistra (diresse il quotidiano cattolico L’Avvenire d’Italia) La Valle è il giornalista italiano che, più di tutti, seguì i lavori dell’assemblea cattolica indetta da papa Giovanni XXIII ad ottobre del 1962. La sua ultima produzione editoriale risale al 2010, quando la casa editrice Ponte alle Graziedi Milano ha pubblicato Paradiso e libertà. L’uomo, quel Dio peccatore. Quella che segue è l’intervista scaturita dal nostro breve dialogo.


Chi è Raniero La Valle?

Sono un giornalista, forse un cristiano, uso le parole, non temo il silenzio. Per raccontare il mondo ho cercato di capirlo, non una volta per tutte, ma man mano, giorno per giorno. Dovendo dare notizie, preferisco le buone notizie, e quando le notizie sono cattive, mi sembra doverle sempre accompagnare con la ricerca delle cause, con l’individuazione di un compito, di un fronte di lotta, con le ragioni della speranza.
La notizia più importante che è entrata nel mio giornalismo, è stata quella del Concilio Vaticano II. Era una buona notizia, voleva dire che c’erano ancora buone notizie dalla Chiesa, c’era ancora una buona notizia – un evangelo – per il mondo. Per raccontare quella notizia per quattro anni ho fatto la cronaca di quell’evento (lo strumento fu “L’Avvenire d’Italia”); ma dopo quegli anni, è stato sempre più chiaro che quella notizia attraversava ogni altra notizia – uomini, popoli, religioni – e su questo, appunto, si è giocato il mio giornalismo ma, credo, in modo indistinguibile da esso, anche la mia azione politica e la mia vita.

Cinquant’anni fa, ad ottobre, ebbero inizio i lavori del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII aveva in mente una Chiesa che fosse proprio di tutte e di tutti, poveri compresi. Oggi come stanno davvero le cose? Quanto la Chiesa di Roma è vicina o meno a quel messaggio?

Papa Giovanni non disse che anche i poveri erano compresi fra tutte e tutti, ma che i poveri erano più di tutti anima e corpo della Chiesa, gente santa amata da Dio. Il Concilio ha messo nelle mani soprattutto dei poveri non proprio la Chiesa (la sua riforma deve ancora venire) ma la liturgia, nella quale ora si usa la lingua della vita quotidiana, e la fede, che il Concilio ha tradotto in forme che anche i poveri possono capire. Ed è su questo primato o privilegio della Chiesa dei poveri che si è costruito un tratto del cammino delle Chiese postconciliari, come è avvenuto con la teologia della liberazione in America Latina, con le teologie nere in Africa, anche se non così in Europa.

Sabato 15 settembre 2012, a Roma, si svolgerà l’assemblea nazionale “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri” ai cui lavori aderiranno persone provenienti da molte parti d’Italia. So che Lei terrà un suo breve intervento.

Sì, io trarrò le conclusioni. Dirò che il Concilio non può essere messo da parte, perché in esso si sono riversati tutti i venti Concili del passato e perciò delegittimare il Vaticano II significherebbe infirmare l’intero patrimonio di fede; e dirò che nello sviluppo della Tradizione della Chiesa, dai tempi apostolici ad oggi, c’è anche la tradizione dei discepoli, di cui l’assemblea del 15 settembre può essere considerata un momento peculiare.

Nel comunicato ufficiale emesso da coloro che hanno organizzato il convegno si legge della loro ferma volontà di essere “protagonisti della vita della Chiesa”: davvero oggi è possibile svolgere questo importante ruolo, da parte delle donne e degli uomini di buona volontà, così come auspicato dal corpus di documenti emessi dal Concilio Vaticano II?

Facile non è, ma possibile lo è di sicuro. Certo, non sarà un pranzo di gala a cui saranno invitati le donne e gli uomini di buona volontà, sarà un agone, ma il cristianesimo è appunto questo, anche se mai dovrà venir meno l’amore e la fedeltà. Il Concilio Vaticano II sarà veramente capito più tardi, speriamo che non sia troppo tardi.

Alcuni gruppi di omosessuali credenti, fra i tanti presenti sul territorio nazionale, all’evento del 15 settembre prossimo saranno presenti per portare le loro testimonianze di cristiane e di cristiani immersi nella fede viva, forti della presenza nei loro cuori del messaggio evangelico d’amore e d’accoglienza. Le chiedo un pensiero in merito al tema dell’omoaffettività cristiana.

Se prendo alla lettera il termine “omoaffettività cristiana” non vedo il problema, ma capisco che qui si intende omosessualità, che è un’altra cosa e per la quale qualche distinzione si renderebbe necessaria. In ogni caso non formulo qui un pensiero, ma vorrei dire qual è la parola a partire dalla quale può essere costruito un tale pensiero. È la parola di Paolo, nella lettera ai Romani: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto. Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole: perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rom. 13, 7-10).
Lidia Borghi
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