Lidia Borghi Body Wrapper

Gli abbracci spezzati

Il buio è uno dei protagonisti dell’ultimo film di Pedro Almodóvar, nelle sale italiane a partire dal 13 novembre 2009. E poi ci sono l’amore incondizionato per il cinema e quello per le donne, che l’autore ci ha trasmesso in modo comico, drammatico, spesso grottesco, nel corso della sua carriera di cineasta. Il buio, dicevamo.

Il regista spagnolo soffre da anni di emicrania, un male oscuro che cronicizza con una facilità estrema. «È una condizione fisica che (…) non ti permette di leggere, scrivere o stare al computer (…). È stato nei momenti di maggiore sofferenza che ho iniziato a immaginare la trama di Gli abbracci spezzati. Nel silenzio e nell’oscurità (…) ho iniziato a immaginare situazioni e personaggi. (…) Mi è apparso per la prima volta Mateo Blanco, che di fatto è una sorta di alter ego in quanto regista costretto a vivere nell’oscurità. Cieco. Ho iniziato a prendere annotazioni perché il fatto interessante del dolore è che non annulla l’immaginazione». Alcuni fra i critici cinematografici che hanno scritto – in modo non del tutto positivo – de Gli abbracci spezzati hanno parlato chi di scatole cinesi chi di matriosche, dato che la trama narra le vicende di un cineasta (Mateo Blanco/Harry Caine) che, a causa di un incidente automobilistico, resta cieco proprio mentre sta girando una pellicola, intitolata Ragazze e valigie. È grazie ad essa che ha modo di conoscere Magdalena “Lena” Rivero, una bravissima Penélope Cruz, la protagonista del film nel film, moglie del ricco uomo d’affari Ernesto Martel (José Luis Gómez) e amante del regista cieco, interpretato da un gelido Lluís Homar. La trama nella trama è solo un pretesto, come i tanti cui Pedro Almodóvar ci ha abituati nei sedici film che hanno preceduto questo, per trasmettere allo spettatore qualcosa di più profondo che ha, lo dicevamo, strette relazioni con i sentimenti, nostri e dell’autore. Tutto è spezzato, in questo film. Il titolo, la trama, i cuori e le vite dei protagonisti, il montaggio stesso di Ragazze e valigie, citazione dotta di uno dei primi successi di Pedro, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, l’aspro territorio dell’isola vulcanica di Lanzarote, le tante foto, strappate in mille pezzi e rinvenute, dopo l’incidente d’auto che renderà cieco Mateo, dalla sua segretaria, Judit García (Blanca Portillo) ma, ciò che risulta ancor più frammentato, rotto in modo irreparabile, sono i rapporti umani. Il tradimento è infatti l’altro protagonista, insieme al buio, di questo vero e proprio tributo che Almodóvar ha voluto fare al cinema, persino a quello del passato, come quando sullo schermo scorrono le immagini di Viaggio in Italia di Roberto Rossellini che riprendono Ingrid Bergman sconvolta e urlante mentre alcuni operai rinvengono da uno scavo i corpi dei due amanti di Pompei intrecciati nella morte. Se non è un abbraccio spezzato questo! E quale perfetta metafora – immagine nell’immagine – per spiegare a chi guarda quanto può essere facile tradire, uccidere, spezzare, appunto, una vita umana. C’è tanta disperazione in questo film e c’è la volontà di superarla stemperandola nel grottesco, nel ricorso frequente alla battuta o alla situazione comica, perché soffrire fa male e tutti noi abbiamo un disperato bisogno di essere amati e di allontanare da noi la sofferenza. Gelida, si diceva, l’interpretazione di Lluís Homar e non poteva che solo andando a vedere il film al cinema. La forza delle immagini è l’elemento vincente di ogni trama almodovariana e qui la si percepisce soprattutto nello sguardo da psicopatico dell’ottimo José Luis Gómez/Ernesto Martel, il possessivo marito di Lena e nei suoi gesti decisi, volti ad incarcerare – in se stesso – una moglie che ama il regista della pellicola di cui è diventato produttore solo per assecondare la volontà della donna di diventare attrice. E così i due traditori, Lena e Mateo, alla fine diventeranno i soli ed unici traditi e il vero perdente della vicenda sarà Ernesto Martel, in un rovesciamento delle sorti che è frequente nei film di Almodóvar. Forse questo è il solo modo che Pedro conosce per rimettere a posto le cose, come a dire che quando si dà un calcio all’amore non ci possono essere vincitori o vinti. Ognuno perde qualcosa. O qualcuno. E resta solo la speranza che, nel caso de Gli abbracci spezzati, torna alla fine del film per offrire un’occasione di riscatto a Mateo. Chi è riuscito ad andare oltre una mera questione di gusto personale ha potuto percepire ben altro in questo articolato lungometraggio in cui c’è spazio per tanti elementi che si intersecano e solo in modo apparente ne rendono complicata la trama. Tutto, in essa, è infatti asservito allo scopo principale di Almodóvar, che è quello di trasmettere un messaggio ben preciso a chi guarda il film. Quando pensi di essere il protagonista assoluto della tua vicenda umana, quando ti convinci che la trama che hai intessuto potrà condurti ad ottenere ciò che vuoi, scopri che la vita è lì, in agguato, che si fa gli affari suoi. E, se ti dovesse mai accadere di incrociarne lo sguardo, ti renderai conto che non sei tu il protagonista delle tue azioni, ma quella vita che pensavi ti scorresse accanto senza incontrarti mai, come due rette, che viaggiano parallele all’infinito. E basta un attimo, un solo attimo per cancellare tutto ciò per cui avevi lottato.

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