Lidia Borghi Body Wrapper

Fire. L’amore lesbico secondo Deepa Mehta

La regista indiana Deepa Mehta iniziò la stesura della sceneggiatura di Fire nel 1995 e cinque mesi più tardi si trovava già in India per occuparsi del casting. A gennaio del 1996 la troupe era pronta a dare il primo ciack ad uno dei film più controversi che siano mai stati prodotti, a causa del tema trattato.

Trentun giorni più tardi Fire era pronto. Mancava solo la colonna sonora, affidata ad Allah Rakha Rahman, una leggenda vivente nel suo Paese, l’India. La storia narra le vicende di Radha (Shabana Azmi) e Sita (Nandita Das) due donne come tante dell’India contemporanea che vivono a New Delhi. Radha è la matura moglie di Ashok (Kulbushan Kharabanda) il gestore di una tavola calda tutto proteso verso l’elevazione spirituale, mentre Sita è la neo sposa che entra a far parte della famiglia allargata insieme al marito Jatin (Jaaved Jaaferi) fratello di Ashok, un arrogante venditore di videocassette – soprattutto pornografiche – che porta abiti firmati e intrattiene frequenti rapporti sessuali con una prostituta cinese che ama alla follia.

La vita delle due donne è resa pesante da tanti fardelli, tra cui i doveri coniugali, l’accudimento della madre inferma di Ashok, Biji e la gestione della tavola calda. Questo è quanto. Nessuna emozione. Solo convenzioni da rispettare, tradizioni da seguire e doveri da compiere. Il tutto gravato, per Radha, dal difficile rapporto con un marito oramai votato alla castità che le giace accanto solo per mettere alla prova i suoi sensi. E poi c’è Sita, la sposina giovane, bella, protesa verso un futuro che le è noto. La tradizione, infatti, la obbliga a dare presto un figlio all’uomo che ha sposato per dovere e che non la ama, in quanto Sita gli è stata imposta dalla famiglia. Ben presto la giovane donna si lega alla matura Radha.

Quegli obblighi famigliari così pressanti inducono le due protagoniste ad una vicinanza che diventa intesa armoniosa e intimità, poi affetto. Infine amore. Quell’amore che in India non viene neppure concepito e il solo nominarlo fa urlare allo scandalo. Radha rappresenta una tradizione vecchia di secoli che accusa molti cedimenti, Sita il nuovo che avanza. Tanti sono i temi affrontati in questa pellicola, le antiche consuetudini sociali del popolo indiano a contatto con la martellante modernità occidentale, il ruolo che per secoli le donne indiane hanno avuto in seno alle famiglie d’origine e a quelle dei mariti (basti pensare all’atroce sorte che tocca alle vedove, tema trattato da Deepa Mehta nel bellissimo Water) e, da ultimo, l’amore lesbico, che rappresenta un tabù anche nell’India odierna. Per questo motivo l’attrice Shabana Azmi fu alquanto restìa ad accettare la parte di Radha, poiché temeva di essere fatta oggetto di minacce da parte dei fondamentalisti hindu. Le ci volle un mese prima di dire di sì a Deepa Mehta.

Quel che venne fuori dai chilometri di pellicola girati in India fu un film forte e delicato allo stesso tempo che riesce a documentare con grazia e realismo il lento ma inesorabile avvicinarsi delle due donne, nonostante le iniziali resistenze di Radha. Malgrado l’amore trionfi, lo scandalo è in agguato. Il ménage viene scoperto da Ashok il quale, inorridito, giunge a malmenare la consorte per indurla a ritrovare la ragione, ma Radha è pronta a rischiare la vita pur di fuggire dalla prigione nella quale ha vissuto per quindici lunghi anni della sua vita. E la tradizione viene spezzata nel giro di poche scene, quelle finali. Agli occhi di noi Occidentali, da tempo abituati a considerare l’omosessualità, persino quella femminile, come qualcosa di reale, questo film può apparire come uno dei tanti a tema, nonostante Fire sia valido per molti altri motivi (l’approfondimento psicologico dei personaggi, la fotografia, la denuncia sociale, la colonna sonora) ma per molti Indiani la storia di Radha e Sita appare come qualcosa di inconcepibile, da rimuovere ancor prima che attecchisca e dia da pensare, ancor prima che rompa con le millenarie tradizioni religiose di una nazione che non concepisce altrimenti la vita, che riconduce tutto al mito e che ingabbia le persone in caste che sono mentali ancor prima che materiali.

A dispetto di tutte le considerazioni precedenti, una su tutte riesce a conferire a Fire un valore aggiunto, un elemento in più che ne fa un film speciale. Se si guarda indietro alla gran parte delle pellicole che hanno per tema l’amore fra donne, ben poche sono quelle che contengono anche solo un elemento di speranza poco prima dei titoli di coda. Come ci ha mostrato il film – documentario Lo schermo velato (in inglese The Celluloid Closet) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, che analizza il modo di rappresentare i personaggi omosessuali nella storia del cinema americano dalle origini agli anni ’80, rari sono i lungometraggi che offrono un’immagine positiva di gay e lesbiche. Anzi, nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a soggetti descritti come negativi, spesso maniaci o assassini che fanno una brutta fine.

A patire l’onta del “negativo-in-quanto-diverso” sono quasi sempre gli omosessuali. E il cinema lesbico non fa eccezione. La deroga è semmai rappresentata da film come Go Fish, Cuori nel deserto o Amore e altre catastrofi – per citarne solo alcuni – che, con grande realismo, affrontano il tema della coppia lesbica nelle sue infinite sfaccettature, relegando i finti drammi “di cassetta” tra i film di second’ordine. Un caso per tutti è rappresentato da L’altra metà dell’amore, in cui una delle due protagoniste, vìstasi rifiutata dalla ragazza che ama, si getta dal tetto del college sotto gli sguardi attoniti della preside, della di lei amante e delle compagne di scuola. Di certo Fire non appartiene al filone catastrofico di certe pellicole lesbiche e, anzi, possiamo dire che il vero protagonista del lungometraggio di Deepa Mehta è proprio la speranza, quella stessa che anima le due donne per tutta la vicenda e che, poco prima che la parola “fine” compaia sullo schermo, ci rincuora e ci fa venire alla mente un pensiero, sopra a tutti: «Grazie a Dio almeno per questa volta nessuna lesbica ci ha rimesso la vita…»

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