Da Christian a Milonga, la Drag Queen laureata
di Lidia Borghi
Intanto presentati
Sul palco sono Milonga, Drag Queen da 4 anni, mentre nella vita mi chiamo Christian Biasi e ne ho 42. Nato e cresciuto a Genova, a 28 anni ho intrapreso la mia ribellione, ho deciso di girare l’Europa e mi sono fatto una certa esperienza a livello umano.
Come sei diventato Drag Queen?
In realtà la cosa è nata per gioco e per caso: qualche anno fa a Torino ho conosciuto un ragazzo che lo era e la sua conoscenza si è rivelata per me positiva, perché lui ha visto che ero portato per esserlo a mia volta, grazie a un corso di teatro amatoriale che ho fatto nel passato, quindi mi ha chiesto di partecipare al suo progetto di scuola per Drag e io ho accettato, incuriosito più che altro dalla parte della trasformazione, poiché conoscevo ben poco di quel mondo. Poco tempo dopo ho vinto il mio primo concorso nazionale, in Lombardia. Era il 2013 e da quel premio in avanti c’è stato un crescendo di esibizioni e riconoscimenti culminati con la vittoria, nel 2016, di due titoli nazionali che hanno decretato il vero successo, quello per Principessa d’inverno e Once Upon a Drag, dedicato all’interpretazione dei personaggi della Disney. Ho vinto con il costume di Ursula.
Com’è nato il nome Milonga?
Ho scavato nel passato di Christian e, siccome da piccolo ballavo il tango, la mia amica Michela mi ha suggerito questo nome, che indica un tango di tipo clandestino che si balla sulle rive della Senna. Quel nome suonava davvero bene e, con il passare del tempo, mi sono reso conto che era azzeccato perché si adattava bene al mio personaggio, inoltre mi identifica.
Parliamo di trucco: le Drag Queen sono note per truccarsi in modo splendido, inoltre sono capaci di tirar fuori delle sfumature eccezionali; quanto c’è di tecnica e quanto di fantasia?
Per me quello del trucco è sempre stato un argomento molto delicato, nel senso che io ho sia fantasia che creatività, ma ho poca manualità e soprattutto poca pazienza. Diciamo che inizio bene, poi mi stanco e, siccome si tratta di una tecnica che ti porta via anche più di un’ora, io mi stanco alla svelta e procedo con minore accuratezza. Ho avuto due grandi maestre che all’inizio della mia carriera mi truccavano, motivo per cui ero odiato nell’ambiente: una è Ladi Tolemaide e l’altra è una Drag Model, al secolo Alessandro Pala, la quale mi ha trasmesso delle tecniche e dei segreti che riguardano anche i materiali da usare, che mi hanno permesso di fare la differenza; diciamo che, per quanto mi riguarda, c’è molta tecnica, poiché occorre studiare la forma del proprio viso e poi affinare quella del chiaroscuro. Come saprai, il viso di ognuno non è perfetto e questo lo scopri proprio quando ti trucchi.
Quello delle Drag Queen italiane è un mondo in cui c’è molta concorrenza ma, alla resa dei conti, sono poche quelle che restano. Tu come la pensi?
Sono d’accordo. C’è molta cattiveria, c’è invidia e molte colleghe non si rendono conto che, una volta struccati, smessi i panni delle Drag Queen e indossati quelli di tutti i giorni, restiamo pur sempre degli uomini. In realtà quelle che lavorano davvero non sono molte e questa è per me una sorta di selezione naturale, nel senso che, al di là di screzi e sgarbi, quel che conta davvero è il riscontro da parte del pubblico. Ci vuole mestiere, in questa professione e l’esperienza e la bravura che si dimostrano sul palco finiscono per eliminare le contendenti che, per quanto belle, nulla possono di fronte al talento.
Parliamo degli abiti: sono stupendi, ben rifiniti e studiati in modo da tirar fuori tutto il genio della Drag che li indossa; spesso si tratta di pezzi unici. Quanti ne acquisti e quanti te ne fai?
Io non me ne faccio proprio perché non ho pazienza né manualità, mentre di quelli che commissiono l’idea di partenza e il modello sono miei, quindi disegno di tutto, dal costume per un personaggio da impersonare, a quelli eleganti. Ho anche scoperto un paio di negozietti, a Torino, che vendono abiti per taglie forti come quella che porto io, che non posso certo dire di avere un corpo femminile: non ho fianchi, ho le spalle di uno scaricatore di porto, però posso dire di avere delle belle gambe.
Che lavoro fai?
Sono laureato in lingua e letteratura russa e faccio il traduttore ma, anche per passione, allevo gatti delle razze British Shorthair e Maine Coon, la cui cura richiede molto tempo; a proposito della mia professione, invece, devo dire che quest’anno Milonga ha assorbito molto del mio tempo.
Hai amicizie nell’ambiente Drag Queen italiano?
Ne ho, anche se le posso contare sulle dita di una mano; fra queste ci sono Ladi Tolemaide, che è un amico vero e Perita, che è la mia madrina adottiva; è grazie a lei se oggi ho la giusta visibilità e spesso dico che sono stato abbandonato da mia madre sul bordo di un palcoscenico e Peperita è passata di lì e mi ha dato l’opportunità di lavorare e di farmi conoscere. Poi ci ho messo del mio, è vero, ma se non fosse stato per lui sarei rimasto a spasso.
Nel mondo DQ ci sono due scuole di pensiero: chi usa il Playback e chi la sua voce. Tu dove ti collochi?
Io sono una campana stonata, per cui a me va benissimo il Playback, che fra l’altro non è una cosa semplice da fare, per di più dal vivo, poiché occorre un’ottima coordinazione tra le parole e il ritmo, ciò non toglie che esistono colleghe molto preparate dalla voce molto bella. Chi sa cantare dal vivo fa bene a mostrare il suo talento. La DQ è un’artista il cui scopo è quello di emozionare il pubblico, sia che lo faccia ridere o che lo commuova e se una lo sa fare con la sua voce o in Playback, perché no?
Milonga avrà un futuro?
Non lo so, perché mi godo il momento e perché è proprio in quest’ottica che Milonga dà il meglio di sé, poiché non ha una proiezione nel futuro. Milonga vive durante le serate che fa, i momenti che quelle le danno e, se un domani lei non ci fosse più, ci sarebbe comunque Christian, con le sue attività e la sua vita.
Compreso l’amore?
Certo. Sai, dopo una grande storia d’amore, che per me è terminata quattro anni e mezzo fa, è difficile ricominciare, anche se io non ho paura; non mi sento uno sfigato e, anzi, sono ripartito da me stesso e dalle mie qualità e mi sono convinto che l’amore più lo cerchi e meno arriva. Prima occorre instaurare un buon rapporto con se stessi, poi ci saranno spazio e tempo anche per l’amore. Sto così bene con me stesso che non cerco nulla.
Il mondo delle Drag Queen è variegato come lo sono le loro menti, poi quello italiano è particolare, poiché per alcuni rappresenta un decollo mancato; che cosa gli manca per decollare?
Non gli manca nulla, a differenza della mentalità italiana media: non esiste una cultura vera e propria del “dragqueenismo”, ma c’è il pregiudizio, che ci mostra come uomini travestiti; la nostra immagine viene veicolata in maniera sbagliata e questo è dovuto anche a tante di noi che si definiscono Drag, ma si limitano a partecipare a qualsiasi serata conciate con un po’ di ombretto e un abito da donna addosso. Quelle per me sono travestite, mentre le vere Drag Queen nascono a muoiono sul palco, dopo essersi esibite. Diciamo che l’ignoranza è ben distribuita fra le DQ improvvisate e la mentalità italiana, invece il vero ambiente DQ in Italia è vivo, solo che è come un quartiere chiuso di una grande città: se non ci entri non lo conosci. È un mondo di nicchia.
Secondo te arriverà un tempo in cui il mondo delle Drag Queen comincerà ad avere una risonanza nazionale?
Chi lo sa, io lo spero! Siamo riusciti ad avere, anche se in maniera strascicata, le unioni civili, perché non dovremmo riuscire a ottenere una certa risonanza per il mondo che rappresento e per quello degli artisti in genere? Pensa che l’anno scorso c’è stato un tentativo di portare le mie colleghe in televisione, ma è stato un fallimento, vuoi per le manovre sporche del mondo televisivo vuoi perché interessava solo il travestitismo e non il travestimento, inoltre a capo del progetto c’era Platinette, che non è una Drag Queen: io e come me molte colleghe non ci sentiamo rappresentate da questo personaggio perché, una persona che dice che una Drag è un uomo che si vede brutto allo specchio e perciò si traveste da donna, non è un simbolo.
Quanto l’arretratezza del nostro paese è colpa del Vaticano e quanto del Parlamento?
50 e 50: le responsabilità per me sono sempre così, come nei rapporti di coppia che finiscono perché uno dei due mette le corna all’altro: dove sta la colpa? Di certo non tutta da una parte.