Lidia Borghi Body Wrapper

Capi scout e questione omosessuale. Una testimonianza genovese

«Durante il sonno voi non sapete se siete uomini o donne. Come un uomo che indossi abiti femminili non diventa per questo donna, così l’anima, che può prendere la forma sia di un uomo sia di una donna, rimane immutabile. L’anima è l’immagine inalterabile e indifferenziata della divinità.» (Dall’Autobiografia di uno Yogi, di Paramahansa Yogananda)

Durante la primavera del 2010 Laura ed io venimmo invitate, insieme ad un’amica, a rilasciare la nostra testimonianza di lesbiche ai capi di un gruppo scout cattolico che si riunisce nei locali di una parrocchia del levante genovese. La questione che venne affrontata durante l’incontro era assai delicata e necessitava di essere al più presto risolta: un piccolo lupetto, dal carattere alquanto esuberante, era diventato ingestibile, all’interno della cerchia di bambine e di bambini di cui faceva parte uno dei capi, a causa del suo presunto orientamento omosessuale, anche se alcune persone avevano avanzato l’ipotesi che si trattasse di una femmina nascosta nel corpo di un maschio.

La faccenda era aggravata da due fattori: prima di tutto le madri ed i padri delle coccinelle e dei lupetti compagni del piccolo erano diventati alquanto insofferenti a causa di quegli atteggiamenti sopra le righe, né il bimbo faceva alcunché per mitigarli; inoltre, le persone deputate al ruolo di capo scout erano del tutto impreparate a gestire un soggetto di quel tipo.

L’incontro ebbe inizio con le nostre testimonianze, durante le quali tutte e tre parlammo non solo del disagio e della sofferenza che provammo una volta scoperto di essere attratte, a livello affettivo, da persone del nostro stesso sesso in una società omofoba ed eterosessista ma anche di come, con il passare del tempo e con l’aumentare della nostra consapevolezza, fossimo riuscite a convivere in modo meno traumatico con gli stereotipi ed i pregiudizi che gravitano attorno al complesso universo gay e lesbico.

In particolare, quel che venne fuori dalle nostre narrazioni fu il tentativo di aiutare quei capi scout ad affrontare con serenità un problema che diventa tale solo se dall’altra parte si permette al pregiudizio di avere la meglio su un’accoglienza piena e legittima di tutti gli orientamenti affettivi e sessuali.

Quando fu la volta delle ragazze e dei ragazzi il cui ruolo era, all’interno dei vari gruppi, quello di gestirne le e gli esponenti, dai loro racconti ci fu possibile apprendere che, al di là del forte disagio che percepivano in se stessi, nelle compagne e nei compagni di gioco del piccolo e nei famigliari di tutte e tutti loro, l’importante era per loro trovare una soluzione soddisfacente per ogni soggetto coinvolto, dal momento che avevano molto a cuore la condizione del giovane lupetto.

L’impressione di fondo era di una ferma volontà di imparare da noi il giusto approccio alle questioni inerenti l’orientamento omoaffettivo e l’identità di genere che, spesso, si presentano nella vita di molte bambine e di molti bambini dell’età di quel lupetto ovvero intorno ai dieci/dodici anni; nella fattispecie Andrea (nome di fantasia) non aveva nulla da rimproverarsi, a causa della sua esuberanza e, se anche prediligeva i giochi femminili piuttosto che quelli maschili, nulla vi era di male, a detta di quei capi. L’importante era avere a disposizione dei modelli di comportamento – inesistenti, allo stato attuale, nella maggior parte dei gruppi scout cattolici italiani – che potessero mettere tutte e tutti nella condizione di ritrovare la perduta serenità.

Il particolare più interessante emerso dall’incontro fu che le guide non consideravano quello di Andrea un problema, mentre gli atteggiamenti di ferma chiusura da parte dei famigliari lo erano diventati nel momento in cui i loro giudizi categorici ed escludenti avevano cominciato a diffondersi anche all’interno dei vari gruppi, finendo per causare l’emarginazione del piccolo, i cui genitori da tempo stavano meditando di ritirarlo dagli scout.

Durante il dibattito, fatto di domande aperte da parte dei capi scout a noi tre, ci sforzammo di offrire, con le nostre risposte, alcune linee guida essenziali per inaugurare un approccio accogliente nei confronti di Andrea all’interno del suo gruppo di coccinelle e di lupetti: senza che a tutti i costi ci fosse bisogno di stabilire se il ragazzino fosse transessuale oppure omosessuale, sottolineammo quanto fosse importante farlo sentire parte di un insieme armonico che lo includesse in modo spontaneo e ribadimmo il concetto secondo cui il problema vero era rappresentato dai pregiudizi che molte madri e molti padri avevano inculcato ai loro figli ed alle loro figlie.

Alla fine dell’incontro molte furono le persone che ci avvicinarono e, nel ringraziarci per aver parlato con loro, ci strinsero la mano; noi tre notammo una luce nuova nei loro sguardi, prima di allora alquanto interdetti, per non dire imbarazzati. Era opportuno utilizzare un linguaggio giusto, da parte nostra, affinché quelle guide comprendessero di non essere sole, ma di avere da parte nostra una comprensione profonda del disagio che stavano provando. Soprattutto tendemmo a sottolineare come la condizione umana di Andrea fosse del tutto lecita e possibile, malgrado i pregiudizi che, all’interno della nostra società, tendono ad emarginare chi non corrisponde ad una presunta norma sociale. La questione più urgente da risolvere era quella di una mancanza di comprensione e di accoglienza di un soggetto reso problematico da quei pregiudizi, mentre il suo carattere esuberante poteva essere ammortizzato grazie ad un dialogo costante e ad un approccio empatico da parte dei capi.

Quell’incontro ci diede molti spunti di riflessione e ci permise di imparare alcune cose a proposito dell’accoglienza delle persone che la società, spesso con molta superficialità, bolla come strane a causa dei propri atteggiamenti. Chissà che quelli di Andrea non fossero dettati dalla solitudine in cui era stato costretto a rifugiarsi a causa dell’emarginazione da parte delle compagne e dei compagni aizzatigli contro dai rispettivi famigliari.

Una cosa ci siamo augurate, mentre tornavamo a casa: che il nostro modesto esempio fosse stato utile a quelle guide, la cui volontà di porre rimedio ad un’ingiustizia sembrava l’istanza più urgente, rispetto al pregiudizio.

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