Flee-Alla ricerca del proprio posto nel mondo
- Posted on: 10/06/2023
- by: Lidia
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Amin Nawabi è il nome di fantasia di un uomo che, ancora bambino, fuggì dall’Afganistan con la famiglia per raggiungere l’Europa. Il regista Jonas Poher Rasmussen ne ha raccontato la storia in un crudo film d’animazione in cui Amin gli rilascia un’intervista nella sua casa di Copenaghen coricato e ripreso dall’alto.
Amin era un bambino vivace e sereno che viveva a Kabul con la famiglia e aveva solo ricordi confusi del padre, che era stato tratto in arresto poiché il governo filo sovietico lo considerava una minaccia.
Aveva sempre saputo che gli piacevano i ragazzi, pur se non aveva ancora la minima idea di cosa ciò significasse.
Amin e i suoi familiari scapparono nel 1991 durante la guerra civile e ad aiutarli fu il figlio maggiore, Abbas, che da anni viveva in Svezia. Il viaggio fu lungo e tragico.
Durante i numerosi salti all’indietro nel tempo, alle scene animate si alternano sequenze d’archivio anche molto forti; la scelta dell’animazione 2D ha dato modo al regista di rendere le immagini più espressive, anche nei punti in cui ci sono solo delle figure appena abbozzate; è lì che Amin sta rievocando le violenze subite.
La fuga della famiglia si fermò a Mosca, dove Abbas diede alla madre i soldi necessari per pagare i trafficanti di esseri umani, che però avrebbero portato in Svezia solo le due sorelle: un container stipato di persone, condizioni igieniche terribili, un viaggio in nave con onde alte più di dieci metri, sembianze appena accennate, nere come la paura, e due giovani donne sconvolte.
Poi fu la volta di Amin, della madre e dell’altro fratello: figure grigie in mezzo ad altre figure grigie, un bosco da attraversare, nevicava, faceva tanto freddo, c’era tanto da camminare; infine davanti a loro la barca che avrebbe dovuto portarli a Stoccolma, una bagnarola troppo piccola e senza servizi igienici. Durata del viaggio due giorni.
In alto mare qualcosa andò storto, lo scafo aveva una falla, il battello imbarcava acqua, venne forzato un boccaporto, i profughi salirono in coperta e videro una nave da crociera; pensavano di essere ormai in salvo, ma l’equipaggio li informò attraverso l’altoparlante: “Abbiamo chiamato la polizia di frontiera estone, sta arrivando, vi riporterà indietro.” Il sogno di una nuova vita andò in pezzi.
Durante lo sbarco ad attenderli c’erano dei poliziotti col viso coperto, erano violenti, il trauma fu tale che Amin non riusciva a smettere di piangere.
Nel film le figure sono appena accennate, sembrano degli spettri, le immagini riprendono gesti concitati, violenze, calci, spintoni.
Il sogno infranto diventò un incubo quando Amin e la sua famiglia furono portati insieme agli altri fuggitivi in un palazzo fatiscente attorno al quale fu messo del filo spinato. Sei mesi dopo scelsero di essere rimandati a Mosca pur di non restare a marcire lì dentro.
Da bambino Amin era un fuggiasco, da adolescente un rifugiato senza identità e oggi rievocare le atrocità vissute lo sconvolge come e più di prima.
Poco tempo dopo Abbas riuscì a prendere accordi con un trafficante più caro ma più affidabile e poiché c’era denaro bastante a far fuggire una sola persona scelse Amin. Il giovane fece la prima parte del viaggio su un camion, poi si imbarcò su un volo per Copenaghen; in aeroporto fu interrogato dalla polizia per tre ore, pianse e disse un sacco di bugie pur di aver salva la vita; “La paura di essere rimandato indietro era così grande che non riuscivo a dire la verità; non potevo essere me stesso. È stato molto doloroso.”
All’inizio fu seguito da una psicoterapeuta alla quale chiese un rimedio per guarire dall’omosessualità e lei gli rispose che l’omosessualità non era una malattia; in seguito Abbas avrebbe avuto un ruolo cruciale nell’aiutarlo a fare, almeno in parte, pace con se stesso.
Oggi Amin è un docente universitario di 38 anni ed è sposato con Kasper. Tuttora non riesce a definire se stesso sia per il dramma che ha vissuto sia per il suo orientamento sessuale. Amin è ancora alla ricerca del suo posto nel mondo.
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