“Any Day Now”. Per amore di Marco
Marco ha quattordici anni. Marco non si separa mai dalla sua bambola dai capelli biondi arruffati. Marco ha una madre che spaccia e si fa di cocaina. Marco attende sul pianerottolo che lei abbia finito di fare sesso, con la musica a tutto volume per coprire i gemiti. Marco ha la sindrome di Down.
Tratto da una storia vera accaduta negli anni ’70 negli Stati Uniti, il film di Travis Fine “Any Day Now” (da un momento all’altro) racconta la storia d’amore fra Rudy, che lavora come Drag Queen in un locale per uomini gay, e Paul, vice procuratore distrettuale e omosessuale non dichiarato. A Rudy sta a cuore quel ragazzino dall’aria sperduta goloso di ciambelle e quando la madre viene arrestata per spaccio, i servizi sociali lo mettono in un istituto; il giorno dopo Marco scappa e Rudy se lo ritrova davanti alla porta di casa, così chiede aiuto a Paul, che gli propone di andare a vivere tutti insieme nel suo appartamento per offrire al ragazzo un ambiente familiare sano e accogliente, come cugini, però, per non rivelare la loro relazione ai servizi sociali, trovata improbabile che presto viene scoperta. Quando entra nella camera che i due uomini gli hanno preparato e riempito di giocattoli, Marco scoppia a piangere.
La vita del ragazzo cambia in modo radicale: mangia cibi sani, si diverte, non soffre più di solitudine, è amato; ogni sera Rudy gli racconta una favola a lieto fine, inventata sul momento, il cui protagonista è un eroe di nome Marco. A prendersi cura di lui però è una coppia di uomini gay, cosa che per il tribunale dei minori è inaccettabile: la società concepisce un solo modello di famiglia.
Quando la madre di Marco esce dal carcere, chiede che il figlio le venga restituito, ma Rudy e Paul si oppongono, sottolineando come la vita del ragazzo sia migliorata da quando vive con loro; ha così inizio una causa violenta e sleale, durante la quale l’avvocato dell’accusa mette in piazza non solo il rapporto fra i due uomini, ma anche certi aspetti della vita di Rudy ritenuti ambigui, che sfrutta a suo favore per metterli in cattiva luce. La sentenza dà ragione alla madre: due uomini gay non possono essere dei buoni genitori e non importa se le condizioni di vita di Marco torneranno a essere squallide come prima: “Marco ha una madre che spaccia e si fa di cocaina.Marco attende sul pianerottolo che lei abbia finito di fare sesso, con la musica a tutto volume per coprire i gemiti.”
In questo film i sentimenti sono ben calibrati e mai stucchevoli: la storia è cruda, drammatica, ma anche romantica, commuove e strazia, denuncia i vuoti legislativi e giudiziari di una società incivile i cui pregiudizi continuano a danneggiare le famiglie omogenitoriali, ritenute incapaci di tirar su delle figlie e dei figli sani.
Alan Cumming nei panni Rudy Donatello e Garrett Dillahunt in quelli di Paul Fliger, recitano da manuale: i loro personaggi difendono Marco e il suo diritto a una vita dignitosa con una tenacia tale, da far presa sul pubblico in modo indelebile.
Visto che il finale del film è stato divulgato in lungo e in largo, mi permetto di farlo conoscere anche io; riporto quindi la traduzione della lettera che l’avvocato Fliger spedisce alle persone che si sono macchiate di un delitto che si sarebbe potuto evitare: “In allegato potete trovare un articolo di giornale, solo un trafiletto a lui dedicato, solo poche brevi righe su un ragazzo handicappato di nome Marco morto tutto solo sotto un ponte, dopo aver cercato la strada di casa per tre giorni. Dal momento che non avete avuto modo di incontrarlo di persona e questo articolo è a corto di dettagli, volevo farvi sapere chi era veramente Marco: era un ragazzo dolce, intelligente e divertente, aveva un sorriso in grado di illuminare una stanza, amava il cibo spazzatura, le ciambelle al cioccolato erano le sue preferite, era il più grande ballerino del mondo e voleva che gli si raccontasse una storia ogni notte, fino a quando la storia non giungeva al lieto fine. Marco amava il lieto fine.”