A single man
Los Angeles, 1962. Siamo in piena guerra fredda e la crisi fra Cuba e il governo statunitense sembra sul punto di scoppiare. George Falconer (Colin Firth), un docente britannico di letteratura inglese di mezza età, si appresta a vivere una giornata particolare. Pochi mesi prima una terribile telefonata gli aveva annunciato la morte dell’amante, Jim (Matthew Goode, già bravo in “Imagine Me & You”), a seguito di un incidente d’auto.
Sedici anni. Tanto era durata la relazione fra i due uomini. E dopo quell’annuncio di morte il nulla. La vita di George non è stata più la stessa, tanto da indurlo a meditare il suicidio e ad organizzarlo nei più minuti particolari. La pistola, datata ma in perfette condizioni, il vestito grigio, con tanto di camicia bianca e cravatta in tinta abbinata (un biglietto messo lì accanto suggerisce di fare il nodo Windsor), lo stipendio, lasciato in una busta, per pagare la colf, i beni in denaro ordinati sulla scrivania e le ultime volontà, scritte a mano con la penna stilografica.
Nulla è lasciato al caso. Neppure il modo in cui l’arma verrà rivolta contro il viso del protagonista. Infilata in bocca. E invece no. Un evento inatteso, imprevedibile, porterà il disperato professore a dare una svolta che potrebbe rivelarsi decisiva alla propria vita.
“A Single Man” segna l’esordio alla regìa dello stilista americano Tom Ford, colui che seppe riportare in auge, con la propria creatività, nientemeno che il prestigioso marchio parigino Yves Saint-Laurent. Creatore di moda, storico dell’arte, architetto, designer e, dal 2008 anche regista, l’artista texano ha fatto centro con questo film di cui ha scritto il soggetto cinematografico ispirandosi al noto romanzo “A Single Man” (1964) del grande scrittore Christopher Isherwood e riducendo la storia di George ad una sola giornata vissuta in modo tanto intenso.
Presentata alla sessantaseiesima mostra d’arte cinematografica di Venezia, la pellicola ha convinto la giuria di qualità che ha conferito al suo protagonista, un bravissimo Colin Firth, la Coppa Volpi quale migliore interprete maschile. L’opera prima di Tom Ford è curata fin nei minimi particolari, anche grazie ad un direttore della fotografia del calibro di Eduard Grau e alla musica di Shigeru Umebayashi (In the Mood for Love), ma non è questo il più grande merito del neo regista statunitense.
La storia di George Falconer è soprattutto l’analisi puntuale dei sentimenti di una persona annientata dal dolore per la perdita della persona amata. Quando gli giunge il triste annuncio, il professore, colto in un intenso primo piano, non muove neppure un muscolo del viso. Solo lo sguardo tradisce la pena infinita, indescrivibile, foriera di morte, quella che il protagonista, di lì a pochi mesi, medita di darsi. E così quelle che scopriremo essere le ultime – forse – ventiquattro ore del professore britannico George Falconer, si riveleranno per lo spettatore le più intense, volute, vissute che si possa immaginare.
Un concentrato di sensazioni uditive, tattili, visive e olfattive che si mescolano – in un susseguirsi di flash-back – ai ricordi della vita appena trascorsa con l’uomo amato, Jim, il cui funerale fu riservato solo ai famigliari stretti e certo non ad un “frocio” che predilige i tacchi a spillo. E poi c’è Charley, la vecchia amica di tante avventure ed ex fiamma dell’uomo, interpretata da un’intensa Julianne Moore (Lontano dal paradiso), così sopra le righe nel tentativo di mostrare al mondo intero la sua condizione di ricca donna sola alla ricerca spasmodica d’amore. Durante la festa a due organizzata per George, la donna tenterà un’ultima volta di sedurre il professore, adducendo come scusa il fatto che l’amore fra persone dello stesso sesso è parziale, monco, inconcludente ma, per una volta, la disperazione del protagonista non riesce ad avere la meglio.
Con una rabbia lucida e implacabile l’uomo ricorda all’amica che l’amore non ha misure e tutti hanno il diritto di provarlo. Non importa per chi. E infine c’è Kenny (Nicholas Hoult) il giovane studente del corso di Letteratura inglese, colui che, verso la fine della storia, rappresenta il vero riscatto della dolorosa vicenda umana dell’uomo. Kenny non si chiede perché la figura di George lo attragga, non si domanda se quel che fa è giusto o sbagliato. Si limita a stargli accanto, a vigilare in modo discreto sul suo nuovo amico. L’interpretazione di Colin Firth è, nonostante le critiche non sempre positive, intensa, profonda, priva di dettagli stonati e riesce a trasmettere tutte le sfumature della solitudine di un uomo che, ancor prima di essere un vedovo, è un omosessuale e perciò un rifiuto della società, un invertito, un essere spregevole che non ha diritto di amare.
Vive in una sorta di terra di nessuno che lo ha abituato ad anni di finzione, affinché nulla di ciò che prova possa trasparire dal volto reso glaciale dalla dissimulazione. E invece è solo una persona, come tante, che non è riuscita a metabolizzare la perdita dell’uomo che amava e che, alla fine del film, riesce a trovare pieno riscatto a tanta sofferenza in modo inatteso quanto liberatorio. Memorabile l’ultima lezione di Falconer sul tema della paura delle minoranze. Ebrei, neri, biondi, mancini, tutti i “pochi fra tanti” incutono paura a coloro che fanno parte della maggioranza, che vince in quanto facente parte della regola prestabilita e invalicabile. Una sola categoria viene omessa dal professore, la più vergognosa, quella che, ancora negli anni ’60, negli Stati Uniti, autorizzava la polizia ad arrestare due uomini che si tenevano per mano, l’omosessualità. E poco importa che essa sia la protagonista silenziosa di un film che attrae – ne siamo sicuri – anche tanti voyeur un po’ morbosi.
Se provassimo a cambiare il tema, il risultato di certo non cambierebbe. Sempre d’amore ci troveremmo a parlare. E non ci chiederemmo se sia giusto o meno che due persone come tante si amino. In amore nulla è mai troppo. Anche in quello omosessuale.